mercoledì 13 dicembre 2017

Franciacorta a Natale / Le bollicine Berlucchi dedicate ai Jeunes Restaurateurs e quelle de Le Marchesine per ogni declinazione di salmone

Divisionismo in cucina, risotto
exponenziale di Daniel Canzian e la Cuvée
JRE n° 4 di Guido Berlucchi
Salmone norvegese marinato alle erbe
e gocce di senape, con il Franciacorta
Secolo Novo de Le Marchesine
 Piccola, grande Franciacorta. Il Consorzio, guidato dal presidente Vittorio Moretti, patron di Bellavista, sta progettando il futuro. Quello vero, perlomeno fino al 2027. In un recente convegno, il sociologo Domenico De Masi, dopo una ricerca sul campo, ha suggerito uno scenario che prevede la trasformazione territoriale della zona con il passaggio dall’era industriale a una successiva, post-industriale. Quindi, abolizione di capannoni e siti produttivi a favore di un’economia completamente basata sulla vigna, le bollicine e quanto deve girar loro intorno: ospitalità, ristorazione, turismo. Qualità (per esempio con un totale passaggio al biologico) e numero di bottiglie in espansione (oggi, nelle annate migliori, sono circa 17 milioni), ma pur sempre in una nicchia, rispetto alla produzione italiana e mondiale.
Scendendo dall’empireo – pur concreto – del futuribile e abbassando lo sguardo all’oggi, ecco l’attualità di due aziende vinicole di Franciacorta, che qualcosa in comune l’hanno (oltre alla tipologia di produzione), un moltiplicatore netto: la Guido Berlucchi produce quasi esattamente dieci volte il numero delle bottiglie  de Le Marchesine. E la qualità? Ecco le prove dei fatti.
La Guido Berlucchi (www.berlucchi.it) è il colosso della Franciacorta guidato dalla famiglia Ziliani, riuscendo a combinare, nelle sue 4,2 milioni di bottiglie annue, le cuvée più popolari con le bollicine più raffinate. Un esempio di queste ultime? Gli spumanti classici delle linee Palazzo Lana e Cellarius.
Tutti “vini” che, tra l’altro, si fanno valere per un buon rapporto qualità/prezzo.
Ma qui se ne parla, in specifico, per uno spumante (sempre metodo classico, com’è ovvio) dal prezzo elevato. Non di per sé, ma perché per gustarlo bisogna andare…al ristorante, non essendo assolutamente in vendita ai privati. E non in un locale qualsiasi, ma solo in quelli dell’associazione dei Jeunes Restaurateurs d’Europe italiani (55 ristoranti, www.jre.eu/it/italia). Le bollicine in questione sono state preparate proprio per (e da) loro. Il risultato si chiama J.R.E. N°4 ed è un Franciacorta Extra Brut Riserva 2008. Nella scorsa primavera, una rappresentanza dei sommelier che lavorano nel locali dei Jeunes Restaurateurs si è recata con il loro presidente Luca Marchini a Borgonato di Corte Franca, nella sede di Palazzo Lana Berlucchi e, insieme ad Arturo Ziliani, enologo e ad di Berlucchi, ha assaggiato nove diverse riserve. Ne hanno discusso a lungo e poi hanno scelto quella che risultava loro più affine per i diversi tipi di cucina dell’Associazione.
Ed eccola, la cuvée su misura: 58% di uve chardonnay, 42% di pinot nero della vendemmia 2008, da
Lo chef Daniel Canzian
vigneti di proprietà di Borgonato. Vini base affinati in acciaio, ma anche nel legno delle barrique (con parziale fermentazione malolattica per conferire rotondità). Riposo di ben 8 anni sui lieviti, sboccatura e aggiunta di una bassa quantità di liqueur d’expedition (sciroppo di dosaggio, 4 gr/litro), un Extra brut, dunque, quasi al pelo dall’essere un Dosage Zero.
Ma quanto può costare al ristorante una bottiglia di questa produzione particolare, che non supera i 5mila pezzi? Ai tavoli di Daniel, il locale milanese del jeune restaurateur Daniel Canzian, 70 . Nel corso della presentazione della JRE N°4, Canzian ha cercato di dimostrare la versatilità della cuvée – che ha i suoi punti di forza nella giusta acidità/freschezza armoniosamente bilanciata dalla setosità – con un menu che ben si sposasse con le bollicine franciacortine: Cannoli di polenta e baccalà mantecato, con yuzu kosho (condimento giapponese con peperoncino); Toast di piccione, foie gras e mele cotte; Terrina di maialino in crosta con salsa chermoula (salsa speziata marocchina); Uovo al vapore con uova di trota e scalogno; Divisionismo in cucina, un risotto exponenziale (creato nel 2015 per Expo, con barbabietole, spumante Franciacorta e Parmigiano); Guancia di vitello all’olio, versione Matisse. Conclusione: impresa di abbinamento della cuvée J.R.E. n°4 a tutto pasto, persino con la carne, ben riuscita, con certi piatti addirittura esaltante.
Fuori contesto, la versione di Canzian del panettone, “Omaggio a Milano”: con, all’interno, riso e zafferano! Squisito e acquistabile presso il ristorante (100 gr, 5 €; 1 kg, 30 €. Ristorante Daniel, via Castelfidardo ang. via S. Marco, Milano, tel. 02.63793837, https://danielcanzian.com).
Quattrocentoventimila, esattamente un decimo di quelle della Berlucchi (anche se la tendenza rapida è verso il mezzo milione) le bottiglie con il marchio Le Marchesine (www.lemarchesine.it), prodotte da Loris Biatta, dinamico vitivinicoltore di Passirano, che si avvale dell’opera dell’enologo Jean-Pierre Valade, membro fra l’altro dell’Institut oenologique de Champagne.
In vista del Natale, in una bella casa di campagna fra le vigne, di fronte alla cantina, Biatta ha voluto sperimentare l’abbinamento di alcuni suoi Franciacorta con diverse tipologie di salmone.
Già, perché c’è salmone e salmone, selvaggio o d’allevamento, affumicato o marinato, pescato in un mare o in un altro…
Dopo ripetute prove sono stati trovati gli abbinamenti migliori ai prodotti ittici, presentati da Paolo Ghilardotti, amministratore delegato di Food Lab (www.foodlab.net), con un passato da cuoco professionista, e attento selezionatore di prodotti ittici di elevata qualità.
Loris Biatta, patron de Le Marchesine
Così, con il Carpaccio di salmone selvaggio dell’Alaska Sockeye, dal sapore delicato ma con spiccati sentori marini e con quello norvegese d’allevamento, equilibrato, con sentori di alga, si è trovato il giusto abbinamento con il Franciacorta Satèn 2013, uno Chardonnay fresco, anche intenso, dal finale morbido (prezzo: sui 24 €).
Con il Sashimi di salmone affumicato norvegese, “grasso”, dall’impatto di alga al primo assaggio, note di fumo lievi e struttura consistente ma morbida, l’accostamento più conveniente si è realizzato con il Blanc de Noir brut 2013, dal colore sorprendentemente rosato pallido (albicocca), dal grato bouquet di piccoli frutti rossi e, in bocca, intenso, quasi potente, con ricordi di macchia mediterranea (prezzo: sui 30 €).
Poi, Loris Biatta ha calato gli assi sul tavolo: due cuvée della sua Riserva più prestigiosa, il Franciacorta Secolo Novo.
Per il Salmone norvegese marinato alle erbe e gocce di senape in grani, è risultato perfetto il Secolo Novo brut 2010, Chardonnay al 100%: in bocca si combinavano il gusto leggermente erbaceo con note tostate del pesce, con il sapore pieno e avvolgente del vino, dalle eleganti note burrose e di cedro candito (prezzo: sui 38 €).
Gran finale, è il caso di dirlo, con il Secolo Novo Dosage Zero Riserva 2008, Chardonnay in purezza, dagli aromi fini quanto complessi, dalla mela cotogna alle sfumature minerali, e un palato consistente, sapido, dal retrogusto ammandorlato (prezzo: 48/50 €). Azzeccato il piatto in abbinamento, una Tartare di salmone selvaggio dell’Alaska Sockeye, con avocado, crumble di cereali e pesto liquido: croccantezza, cremosità, sapidità e leggera affumicatura. Ci volevano grandi bollicine per reggere il confronto: pari e patta con onore.

mercoledì 6 dicembre 2017

Panettoni eccellenti / Puccini ci Cova nel Panettone dei Ricordi. E la Martesana non è solo un naviglio...


A sinistra il Panettone di Giovanni Cova & C., "in veste" Turandot. A destra, il classico di Martesana Milano


Caro Tito
Ho ricevuto e quasi mangiato
l’Elefante detto Panettone
che m’hai voluto anche in
quest’anno mandare. Come al
solito era bellissimo e buonis-
simo e te ne ringrazio molto.
……………………………………..
Auguro a te, a tua moglie, ai
tuoi figli buona festa e buon
anno, al tuo commercio buoni
affari, a te poi particolarmente
salute, salute, salute.

Così Giuseppe Verdi, in una missiva scritta a Tito Ricordi da Genova il 26 dicembre 1869 per ringraziarlo dell’elefantiaco panettone, che il titolare della già famosa casa editrice musicale gli aveva fatto pervenire a Busseto.
Andrea Muzzi e Pierluigi Ledda
Questa lettera si trova nell’Archivio Storico Ricordi, ospitato presso Palazzo Brera di Milano. Fondato nel 1808 e acquistato nel 1994 dalla multinazionale tedesca Bertelsmann, che ne garantisce sia la conservazione che lo sviluppo culturale, raccoglie partiture, lettere di compositori, librettisti e cantanti, bozzetti, libretti, foto d’epoca e manifesti Art nouveau. Ma è un’istituzione che, nonostante il prestigio di cui gode (secondo Luciano Berio, “L’Archivio Ricordi è una cattedrale della musica, un’opera unica al mondo”), è poco nota al grande pubblico.
Così Pierluigi Ledda, direttore dell’Archivio, alcuni mesi fa si è incontrato con Andrea Muzzi, amministratore delegato di Giovanni Cova & C., un’azienda dolciaria che affonda le sue origini nei primi anni del Novecento (da non confondere con il quasi omonimo marchio montenapoleonico, passato da tempo in mani francesi).
Muzzi voleva pervadere un’eccellenza dolciaria milanese di un afflato culturale, Ledda partecipare a un’iniziativa che, senza svilire il carattere erudito dell’Archivio, lo ponesse all’attenzione di un pubblico più vasto di quello specialistico. Detto e (quasi) fatto. Dopo uno studio mirato degli archivi e un progetto artistico, la soluzione è stata trovata. Per questo Natale i panettoni “di lusso”, fatti come Meneghino comanda, cioè con lievito madre, burro speciale del Nord Europa, canditi del Sud Italia, uva passa della Turchia e uova fresche, sono stati vestiti con le immagini storiche della Turandot pucciniana; altre specialità, con le riproduzioni delle opere dei maestri del melodramma, e anche di illustratori famosi, come le partiture autografe di Paganini del 1817, la copertina della Prima di Madame Butterfly (Puccini) e le illustrazioni di Marcello Dudovich.
Nelle confezioni, anche un libretto dell’Archivio Storico Ricordi, di grande suggestione.
Info. Archivio Storico Ricordi, Palazzo Brera, via Brera 28, Milano, www.archivioricordi.com .
Giovanni Cova & C.,  flagship store in via Cusani 10, Milano, tel. 800.013346, www.bistrot.giovannicovaec.it , www.giovannicovaec.it . Alcuni dolci della Linea Ricordi: (i prezzi diversi per lo stesso articolo dipendono dalla confezione: incarto, scatola o latta) Panettone classico, 20,30 €-21,70 €-24,50 €; Panettone pere e cioccolato, con pera semicandita, 20,90 €; Panettone farcito con crema al limoncello, all’ananas o Gran cioccolato, 20,90 €.

Hanno appena compiuti i 50 anni, quelli di Martesana Milano, ma sono sempre lì, sulla breccia, anzi al forno, a inventare nuovi dolci e nuove declinazione del panettone. Due le pasticcerie, due i laboratori, la guida sempre salda nelle mani  del fondatore Enzo Santoro, maestro Ampi (Associazione dei maestri pasticceri italiani), che però è così lungimirante da lasciare la briglia sciolta anche ai più giovani dei suoi collaboratori. Il segreto che rende orgoglioso Enzo è il lievito madre creato da lui stesso, dopo prove e riprove, per trovare il più adatto alla sue creazioni.  E poi
Enzo Santoro, a destra con la figlia
Manuela e i suoi pasticceri
la qualità delle materie prime, l’abilità, la serietà, la competenza…sembrano lodi sperticate, ma per  capire se si tratta di un eccesso o di realtà purtoppo (o per fortuna) c’è un solo metodo: provare i loro dolci. Chi scrive l’ha fatto e ne è rimasto colpito prima, entusiasta poi.
Panettone. Il tradizionale è…lui, cioè fatto come dio comanda, soffice, burroso, dai profumati canditi all’arancia, lievitato perfettamente. Uno di quelli che vanno per la maggiore, davvero squisito, è il Panetun de l’Enzo, creato appunto da Santoro, che in un primo tempo  tentò di chiamarlo Panetun-Sacher, incorrendo nelle ire dei pasticcieri viennesi che ne hanno il brevetto (del nome). Ridimensionato quindi a un più casalingo Panetun de l’Enzo, non per questo è diventato meno buono: contempla una farcitura al cioccolato  e confettura di albicocche con pezzetti dello stesso frutto candito e una copertura sempre di cioccolato amaro al 65%.
La novità dell’anno che sta per finire è però il Panettone Strudel (qui niente problemi di copyright): lo firma il 27enne Marco Battaglia, siciliano e responsabile del reparto forno. Semplice a dirsi, difficile a farsi: alla pasta lievitata si uniscono i dolci ingredienti dello strudel, mele, uvetta, pinoli e cannella. Una squisitezza.
Per Natale e il periodo invernale, due altre novità dolciarie. La prima è la Torta al caco (meglio sarebbe dire: al kaki, o, al cachi, in italiano diospiro), una limited edition (finiti i cachi…). Creata da Alessandro Comaschi, capo pasticcere, contempla una base di frolla con una mousse di mascarpone, una gelatina e una mousse al cachi e una decorazione finale di marshmallow (toffolette o cotone dolce).
Il Tronchetto natalizio. In Martesana viene rivisitato utilizzando per la base di frolla anche
"Spaghettata" di marron glacé
arachidi salate e mandorle, poi tre strati di Pan di Spagna all’olio extravergine e nocciola, cremosi di cioccolato fondente e all’arancia e mousse di mandorle.
La prima pasticceria Martesana è stata aperta in via Cagliero nel 1967. Per festeggiare il cinquantenario Santoro&Company hanno deciso di produrre in successione, nel corso di una anno, cinque torte, ognuna delle quali simboleggi un decennio. La prima si chiama Spaghettata ai marron glacé: pan di Spagna al cacao e mandorle come base per una mousse di marroni (con pezzetti all’interno), sfere di cioccolato e wafer. Sopra ancora, altro pan di Spagna, glassa al cacao e decorazioni di “spaghetti” di marroni. Uuuuh!
Info. Martesana Milano, www.martesanamilano.com. Negozi: via Cagliero 14, tel. 0266986634. Orari: 7.30-20.30 (mai chiuso); via Sarpi 62, tel. 02.99265069. Orari: 7.30-20 (mai chiuso). Prezzi. Panettoni (al kg): tradizionale 34 €, de l’Enzo e Strudel, 38€; Torta al caco, 36 €; Tronchetto natalizio e Spaghettata ai marron glacé, 42 €.

sabato 2 dicembre 2017

Arriva il generale Inverno con i suoi vini rossi. 5 Eccellenze che non ci stanno affatto in cagnesco, dal maso trentino al trullo pugliese, via Valtellina, Piemonte e Toscana


Veduta di Caiarossa, tenuta toscana in Val di Cecina.
È inutile girarci intorno. Rosso tutte le stagioni, bianco strutturato anche con la carne, rosato sugli scudi, bollicine forever e così via, sperimentando e provando, non sempre con soddisfazione. Ma la stagione invernale – e ormai ci siamo – vuole cibi di carattere, carni importanti, pesci salsati e ricchi. Tutta roba che si sposa divinamente con i vini rossi, purché buoni e giusti. E ovviamente “puliti”, come aggiunge di solito il guru Carlin Petrini. Eccone allora cinque, scelti con cura e passione, dal Nord-est al Sud-ovest, che parlano altrettanti dialetti, ma una sola lingua: l'italiano dei vignaioli per bene.
Un’azienda vinicola da 70milioni di bottiglie annue, può fare anche vini d’eccellenza? Sì, se si chiama Cavit (cooperativa con10 cantine sociali e 4500 viticoltori associati) ed è in grado di fare seleziona su terreni e vitigni, di produrre vini con protocolli moderni ed efficaci e di distribuirli su tre linee di qualità crescente come sono la Mastri Vernacoli, Bottega Vinai e Il Maso. Per esempio, il vitigno principe del Trentino, il teroldego rotaliano, può divenire vino immediato quanto piacevole nella linea Mastri Vernacoli (ottimo per bolliti misti e polenta), si fa più complesso nella versione Bottega Vinai (più adatto quindi su grigliate di carne, spezzatino, lepre in salmì) e diventa opulento nella Linea Il Maso, che per altro contempla solo altri tre vini: il Marzemino Superiore Romani e i bianchi Torresella, splendido Chardonnay Riserva e Torresella Cuvée, uvaggio appunto di sauvignon, chardonnay, gewürztraminer e riesling renano.
Il Maso Cervara 2014 (solo 6mila bottiglie), è un Superiore Riserva. Le uve teroldego sono coltivate biologicamente, anche se non se ne fa cenno in etichetta, intorno al maso stesso, su terreno di natura alluvionale, poco profondo, su riporti ghiaiosi del torrente Noce. La resa non supera gli 80 q.li per ettaro. L’uva solitamente si vendemmia a fine settembre, poi il vino passa in barrique e botti grandi per circa due anni. Il 2014 è stato imbottigliato nel dicembre 2016 e si è affinato almeno sei mesi in bottiglia.  Un vino dal colore rosso rubino fitto, che conserva sfumature violacee. Al naso prevagono i sentori di piccoli frutti rossi e di violetta, con accenni balsamici e speziati. In bocca è caldo, equilibrato, ancora un po’ tannico, ma dolcemente, con echi speziati e un retrogusto di frutti rossi in cui prevale la mora.
Abbinamento classico con polenta carbonera, selvaggina, stinco di vitello al vino rosso, formaggi stagionati.
* Maso Cervara, Teroldego rotaliano Doc Superiore Riserva 2014, 25 € la bottiglia. Prodotto da Cavit, via del Ponte 31, Trento, tel. 0461.381711, www.cavit.it.
In campo letterario, La Spia è un nome fortunato. Vengono alla mente almeno due libri di successo, La spia di Paolo Coelho, protagonista Mata Hari e La spia romanzo ottocentesco di J. F. Cooper, sulle imprese dell’astuto Harvey Birch durante la guerra d’indipendenza americana. In campo enologico, La Spia è un piccolo vigneto a Castione Andevenno, in Valtellina (nella pregiata sottozona Sassella), che ha dato il nome alla cantina inaugurata otto anni fa da Michele Rigamonti. Probabilmente nome e impresa che faranno fortuna, anche loro. Già il padre di Michele e il nonno producevano lì vino per uso famigliare. Poi lui decise di farlo in maniera professionale quanto appassionata. Tre ettari di vigna corrispondono oggi a quattro vini, un bianco e un rosso Igt, un Valtellina Superiore e un Sassella Docg.
Rigamonti si avvale di un giovane enologo come Emil Galimberti, laureato a San Michele all’Adige e con titoli acquisiti in campo enologico e viticolturale a Trento, Udine, Torino, Montepellier e
Bordeaux e con esperienze in Francia, Nuova Zelanda e Inghilterra, oltre che nella stessa Valtellina. I vini sono per lo più invecchiati sapientemente e a lungo, sfruttando le doti dei contenitori in acciaio quanto quelle del legno di rovere francese e non lesinando sull’affinamento in bottiglia. Il PG 40 (PG sta per Paganoni Giovanna, la madre di Michele, nata nel 1940) Valtellina Superiore Sassella 2011 è stato premiato in ottobre alla 34a edizione del Grappolo d’oro di Chiuro, da una giuria stupita di trovarsi di fronte a un vino di così gran carattere, prodotto da un’azienda così giovane. Lo stesso vino, dell’ultima annata in commercio, il 2012, si dimostra all’altezza del fratello maggiore. Il vitigno è naturalmente il nebbiolo in purezza, chiamato in Valtellina chiavennasca, situato a 350-400 s.l.m., su terreno terrazzato con forte presenza di roccia madre affiorante, sabbioso con presenza di limo e buona dotazione di sostanze organiche. La resa per ha è sui 55-60 q.li. Dopo la vinificazione a temperatura controllata, il vino ha passato 6 mesi in vasche inox e tre anni in botti di rovere francese, quindi si è affinato per sei mesi in bottiglia. 2000 bottiglie (in totale la produzione attuale è di 20mila l’anno, ma aumenteranno).
Classico colore rosso rubino, profumi di rosa appassita e frutta matura, ma anche di viola e piccoli frutti rossi, con ricordi speziati. Asciutto in bocca, con bella presenza dei tannini, già in equilibrio, tendenti al velluto,  fresco e snello con bel finale sapido. Con che piatti sposarlo? L’abbinamento regionale suggerisce pizzoccheri e risotto al formaggio Bitto, ma anche una bella lepre in salmì e formaggi stagionati fanno matrimonio d’amore. Lo chef-patron Filippo La Mantia (omonimo ristorante a Milano), siciliano, che però ha in uggia aglio e cipolla, l’ha proposto con un originalissimo quanto gustoso primo di paccheri in “zuppa forte” di pesce e cime di rapa, piccantino e saporoso, quanto azzeccato.
PG 40, Valtellina Superiore Sassella Docg 2012, sui 28 € la bottiglia. Prodotto da Cantina La Spia, via Nazionale 68, Castione Andevenno (Sondrio), www.ribelwine.com .
L’accento è grave, ma il vino è soave. Il Ruchè (non Ruché) di Castagnole Monferrato, è un rosso Docg piemontese, dai numeri modesti (136 ettari di vigneto coltivati su 7 piccoli comuni, 776mila bottiglie prodotte nel 2016, divise fra 35 produttori), ma dalla storia quasi leggendaria. In realtà persino il suo nome ha avuto diverse grafie, prima che la Docg lo codificasse come Ruchè. Era scritto anche con l’accento acuto o addirittura con un francesizzante dittongo ou: Rouché o Rouchét. L’uva, coltivata sin dal Medioevo sulle colline del Monferrato, ha cominciato ad affermarsi come vino da tavola di una certa valenza con Luigi Veronelli, che ne scrisse sui suoi cataloghi dei vini degli anni Sessanta (Bolaffi) e poi del 1986 (Giorgio Mondadori). Veronelli lo definisce “rosso rubino, sottolineato da vivaci riflessi viola”; ne avverte un “bouquet ben dichiarato con sentori di frutta e rosa e, più marcato, di viola”; in bocca lo trova “asciutto, sapido, con sentore di spezie; duro al primo contatto, si apre in bocca per nerbo sano e stoffa consistente, che si prolunga in velluto; pieno carattere”. Lo consiglia in abbinamento a “piatti saporosi della cucina locale, in particolare sulla spalla di vitello brasata”. Cita e pubblica le etichette di quattro produttori: Scarpa, Rabezzana, Biletta e Cauda.
Ed era stato proprio Don Giacomo Cauda, parroco di campagna, a (ri)vinificare per primo, in epoca
recente, quelle uve scontrose con l’obiettivo di ottenerne un vino di qualità. Negli anni Sessanta creò l’etichetta Ruchè del parroco, con un angelo dalle ali aperte come emblema e nei lustri successivi il Ruchè verrà identificato con quel nome e quell’etichetta. Il vino era buono, particolare e piano piano anche altri vignaioli si fecero avanti, recuperando magari una tradizione familiare caduta in oblio, a favore dei più produttivi barbera e grignolino. Arriva anche la Doc (e negli anni Duemila, la Docg) e il Ruché diventa un vino di un certo successo.
Don Cauda nel 1993 per ordini superiori però deve alienare le proprietà fondiarie, vigne comprese, all’istituto diocesano per il sostentamento del clero, che le rivende. Il parroco del Ruchè morirà 79enne nel 2008. Le vigne erano intanto passate al produttore locale Francesco Borgognone, il quale nel 2016 le rivende a Luca Ferraris, un giovane agronomo entusiasta del vino del territorio, legato a Castagnole da 4 generazioni familiari e ben deciso a volorizzarlo al massimo.
Già l’Agricola Ferraris produceva Ruchè in tre versioni,  l’Opera prima, un Ruchè d’invecchiamento,  fiore all’occhiello della produzione, Clàsic, una selezione, e Bric d’Bianc, di più facile beva. Con la Vigna del parroco Ferraris vuole riportare in auge il tradizionale rosso di Don Cauda, vuole farne un marchio a parte, esaltare l’unico cru riconosciuto sul territorio, quasi come un prodotto eterno, punto di riferimento storico e attuale del vino.  Così, il nuovo, antico Ruchè, è appena uscito in veste rinnovata, con quel nome e quell’emblema, ma ripensati secondo uno stile contemporaneo. Come lo stesso vino, che mantiene intatte le migliori caratteristiche di piacevolezza, carattere ed estrema eleganza.
Ruchè di Castagnole Monferrato Docg, Vigna del parroco 2014, 15 € la bottiglia. Prodotto da Agricola Ferraris, S. P. 14, loc. Rivi 7, Castagnole Monferrato (At), tel. 0141.292202, www.ferrarisagricola.com.
Tutto risulta piuttosto anomalo quando si parla di Caiarossa. Il nome. Che vuol dire? È un richiamo al rosso intenso dei terreni, caratterizzati dalla presenza di diaspro, rocce e ghiaia; e a Gaia, madre degli dei dell’Olimpo e dea della fertilità. Il luogo. La Val di Cecina, non esattamente rinomata per i suoi vini. I metodi. Biodinamico per l’agricoltura; geodinamico e Feng Shui per il progetto della cantina. La proprietà. Toscana? No francese, con un olandese, Eric Albada Jelgersma alla guida, forte anche dell’esperienza proprietaria di due châteaux nel Margaux, i Grands Crus Classés Château Giscours e Château du Tertre. I vitigni. Sangiovese? Poco, qui trionfano gli internazionali, in prevalenza quelli d’Oltralpe: cabernet franc e sauvignon, merlot, petit verdot, syrah, alicante per i rossi; chardonnay, viognier e petit manseng per i bianchi.
La cantina, circondata dai vigneti, è appoggiata sul versante sud-ovest di una collina. Il clima non è mai eccessivamente caldo, grazie all’altura e alla brezza marina che vi spira. Vendemmia rigorosamente manuale, in cassette: da settembre a novembre, quando l’ultima uva, quella del petit manseng, viene raccolta dopo l’appassimento in pianta; darà luogo a un vino da vendemmia tardiva straordinario, chiamato Oro di Caiarossa: perfetto con Gorgonzola a due paste (piccante) e Roquefort. Ma è l’unico vino manovarietale, gli altri sono quasi tutti un mosaico di vitigni, vinificati parcella per parcella e ricomposti in assemblaggi difficili, ma ben studiati per risultare armonici.
Il Caiarossa bianco è fatto con viognier e chardonnay, con un passaggio di poche settimane in legno piccolo. I rossi sono tutti vini “da taglio” (nel significato bordolese). L’unico che parla toscano è il Pergolaia, basato su sangiovese, con piccole aggiunte dei due cabernet e di merlot. Già si respira Aria di Caiarossa (e cioè anche di bottiglie più importanti) con l’omonimo Igt Toscana, composto da cabernet franc, merlot, syrah e cabernet sauvignon, fresco, morbido, dopo la maturazione in barrique e tenneau. Ma il vino portabandiera dell’azienda è il Caiarossa, uvaggio di ben sette vitigni: merlot, cabernet franc e sauvignon, syrah, sangiovese, petit verdot e alicante. Vigne di 17 e 18 anni, di oltre 9mila piante per ha. E 40 q.li d’uva, sempre per ha. Barrique e tonneaux francesi, nuove e usate, per circa 18 mesi in media e 6 mesi di vasca in cemento prima dell’imbottigliamento. In annate particolari viene prodotto anche l’Essenzia di Caiarossa, superselezione imbottigliata solo in magnum.
Attualmente è in vendita il Caiarossa 2013, ma annate più vecchie, degustate nel corso di una presentazione al Park Hyatt di Milano, hanno dato risultati molto apprezzabili, in particolare la 2006, ricca ed elegante. Freddo d’inverno, una primavera piovosa e un agosto più freddo della media hanno prodotto condizioni avverse per la crescita dell’uva, nel 2013. Ma i preparati biodinamici utilizzati al momento giusto e le perfette condizioni di settembre hanno fatto ritrovare equilibrio al vigneto, con giusta maturazione dei tannini, senza zuccheri in eccesso. Il colore è un bel rosso rubino fitto, i profumi prevalenti sono di piccoli frutti rossi e prugna e già si avverte un poco di tabacco e pelliccia bagnata. In bocca appare ricco, elegante e sapido, con tannini in evoluzione. Il neo bistellato Michelin Andrea Aprea, chef del ristorante Vun del Park Hyatt,  l’ha proposto in abbinamento a una spalla d’agnello con rape e malto d’orzo. Perfetto.
*  Caiarossa, Toscana Igt 2013, sui 45  la bottiglia. Produttore: Caiarossa, Podere Serra all’Olio 59, Riparbella (Pisa), tel. 0586.699016, www.caiarossa.com .
Era il sogno di Mino Calò, gran patron di Rosa del Golfo, prematuramente scomparso a 55 anni, nel 1998. Dopo aver realizzato un grande rosato come il Rosa del Golfo, che dà il nome all’azienda, voleva produrre anche un grande rosso con i vitigni autoctoni del Salento. Ci sono riusciti i figli, Damiano e Pamela, con la mano sapiente dell’enologo Angelo Solci. Quarantale è il nome del vino, che in dialetto salentino significa solco, quello che si scava nel terreno per poi piantarvi una vigna nuova. Il vino viene prodotto solo nelle annate ritenute migliori e così, dopo il 2010, è ora la volta del 2013, cui seguirà il 2015, che sta ancora maturando in botte.
Il rosso attualmente in commercio, è  il frutto del meditato assemblaggio di negroamaro (70%), primitivo (20%) e malvasia nera (10%). I vigneti ad alberello, di 50 anni, si trovano a pochi km dal mare e fanno tesoro della brezza salina e di un’escursione termica notevole, che aiuta a conferire al vino toni lievemente balsamici. Le tre uve sono vinificate separatamente e quindi assemblate per trascorrere un anno a maturare nelle piccole botti da 228 litri. Riposano poi ancora un anno in bottiglia. Il 2013 è stata un’annata buona per gran parte dei vini italiani. Non diversamente per Quarantale che, dopo l’opportuno invecchiamento, è risultato all’assaggio strutturato ma elegante, con profumi di macchia mediterraneo (elicriso, pino) e spezie, e un tocco balsamico. Bel finale, lungo e coerente.
Da provare sui piatti locali, come gli involtini con le cento pezze (parti della trippa), pezzetti di cavallo e anche altri piatti della cucina italiana, come costolette d’agnello, selvaggina e formaggi saporiti.
*  Quarantale, Salento Rosso Igp 2013, 25 la bottiglia. Prodotto da Rosa del Golfo, via Garibaldi 56, Alezio (Lecce), tel. 0833.281045, www.rosadelgolfo.com 

mercoledì 22 novembre 2017

I vini estremi vanno Forte: quello di Bard, in Val d'Aosta. Due giorni per scoprirli

Il Forte di Bard, in Val d'Aosta.

Sapevate che ci sono gli estremisti anche nel mondo del vino? Estremisti positivi, a volte eroici o quasi; sono quei vignaioli che coltivano l’uva in montagna, su terreni ripidi o terrazzati; oppure in piccole isole o in condizioni climatiche molte disagiate. In verità, quindi, sono i contesti ad essere estremi, i viticoltori sono dei sani estremisti che non si lasciano irretire dalle difficoltà. Ai Vins extrêmes è dedicata una manifestazione che si terrà sabato 25 e domenica 26 in Val d’Aosta, nella spettacolare sede dei Forte di Bard, posto sulla sommità di una rocca all’ingresso della valle.
Degustazioni libere e guidate, laboratori del gusto e tavole rotonde, convegni e premiazioni (quella del XXV Concorso mondiale des vins extrêmes, appunto): si assaggerà e si parlerà di come valorizzare vini che per forza di natura hanno rese basse per ettaro e, anche per questo, un’intrinseca qualità, che
Degustazione dei vini "estremi".
non è da tutti.
Non è una “grande” manifestazione, piuttosto un ritrovo a misura d’uomo, quasi da montanari, verrebbe da dire. Delle oltre 60 aziende espositrici, infatti, molte sono di casa, cioè valdostane, altre provengono da parecchie regioni italiane (dall’Abruzzo alla Campania, dal Trentino Alto Adige alla Sardegna), e da Paesi esteri come Germania, Francia, Spagna e, addirittura, Palestina.
Dovrebbero essere presenti quanto meno le bottiglie premiate al Concorso 2017. Si spera così di poter assaggiare, fra gli stranierei, i vini del Vallese svizzero e quelli della Mosella (Germania), gli andalusi, e quelli delle Canarie e delle Baleari; il mitico Banyuls francese e i greci delle isole di Santorini e Samos. Ancora, i Madeira e le bottiglie delle isole Azzorre portoghesi. Ci saranno persino vini palestinesi, quelli della Cantina Cremisan di Betlemme, sostenuti dal Volontariato italiano per lo sviluppo e da enologi come Riccardo Cotarella.
Fra gli italiani, a parte le predominanza valdostana, vini quasi sempre di qualità indiscutibile, con punte di vera eccellenza, una citazione personale va all’Azienda Scala Fenicia, l’unica dell’isola di Capri (Vedere anche: I vini autoctoni di Ischia e quelli eroici di Capri, pubblicato il 30/6/2016, https://ilmoncalvini.blogspot.it/search/label/Scala%20Fenicia ).
Qualche chicca(o), spiluccando dal ricco programma. Tutto inizia sabato alle 10 con l’apertura dei banchi di assaggio. Alle 14 , degustazione guidata: Valle d’Aosta e Vallese, due terroir a confronto. Alle 15 tavola rotonda su Vini eroici e innovazione. Alle 15,45 laboratorio del gusto su Formaggi e patate della Val d’Aosta (di gran pregio); alle 17,30, Degustazione di vini passiti.
La domenica, alle 11,15, Degustazione guidata dei vini delle piccole isole e alle 11,30 Premiazione
Vendemmia a Capri nei vigneti di Scala Fenicia
dei vincitori del 25° Concorso mondiale des Vins Extrêmes, a cura del Cervim, meritorio centro studi di ricerca, salvaguardia, coordinamento e valorizzazione per la viticoltura montana (www.cervim.org). Alle 15,45, degustazione guidata Il fascino senza tempo di Porto, Madeira e Banyuls (un vino, quest’ultimo, che fa grande matrimonio d’amore con un antico piatto del grande chef Alain Sanderens, l’Anitra Apicius!).
Info. Vins Extrêmes 2017, il meglio dei vini d’alta quota, Forte di Bard (Aosta), www.vins-extremes.it . Ingresso: 20 € per un giorno, 30 € per le due giornate, compreso bicchiere per degustare i vini delle aziende partecipanti e i vini vincitori del Concorso. Laboratori e degustazioni guidate (a numero chiuso), 15 € in più (da prenotarsi al link https://www.eventbrite.com/e/vins-extremes-tickets-39550208739 ).

Quella del Don Juanito è proprio una buona "causa". È il nome di un piatto peruviano eccellente, ma il resto della cucina andina non è certo da meno




Il personale del Don Juanito: seduti, da sinistra lo chef Alex Huayanay,
peruviano e il patron Diego Muzzi, argentino.
Ha lavorato da Francis Mallmann a San Paolo, con Gordon Ramsey a Londra, Pietro Leeman al Joia di Milano; poi è stato chef del Don Juan di via Altavilla, sempre a Milano, di ruspante cucina argentina. E, poco più di un anno fa, Diego Muzzi, 40 anni, argentino di Mendoza, ha preso in mano il Don Juanito, nato come tavola calda, poi bistrot del Don Juan, poi passato ancora di mano con alterne vicende. Muzzi ha rifatto il locale con un certo gusto, non annulandone l’impronta sudamericana, ma attenuandola e spargendo luce colorata e soffusa a piene mani. L’ambiente è quindi piacevole, forse fin troppo “intimo”, la sera. In cucina, sotto la supervisione del patron, opera il 37enne chef peruviano Alex Huayanay, nativo della zona montuosa della regione di Ancash, che ha come vetta l’Huascarán  (6.768 metri). Dopo numerose esperienze in patria e Argentina, è approdato anche lui al Don Juanito.
Tre antipasti: a sinistra la causa.
Visto che il patron è argentino e lo chef peruviano, e qui si trovano piatti di queste due nazioni e anche di Colombia (come l’Arepa), Cile (empanada ai frutti di mare) e altre, al locale, pur mantenendo il nome originario di Don Juanito, è stato aggiunto l’appellativo di Restaurante Andino (dal nome della cordigliera delle Ande, che con i suoi 7.200 km segna il Sud America lungo Venezuela, Colombia, Ecuador, Perù, Bolivia, Cile e Argentina).
A tavola si può scegliere tra due menu degustazione (vino a parte): di terra (a 47 €) e di mare (a 52 €), che contemplano ognuno quattro antipasti, tre secondi e un dolce. Altrimenti si procede alla carta e così si può saltabeccare fra una linea e l’altra.
Un piatto caratteristico della cucina peruviana è la causa. Si tratta di una sorta di purea (o di gattò napoletano) che viene mescolata con vari ingredienti, per esempio aji amarillo (peperoncino giallo/arancione), lime, gamberetti o pollo (ma anche tonno e altre varianti), qui preparato in maniera deliziosa. L’origine del nome è singolare. Si tratta, intanto, di un piatto precolombiano, preparato con un tipo di patata chiamata amarilla, per il colore giallognolo della polpa. Secondo una prima versione il nome causa deriverebbe da kausay, che significa alimento indispensabile. Un’altra versione ci riporta al libertador José de San Martín y Matorras (1778-1850) - un eroe che si battè per la libertà del Sud America (una sorta di nostro Garibaldi) - e quindi a Lima, la capitale peruviana, ai tempi in cui questo cibo veniva venduto per strada, proprio per finanziare la causa dell’indipendenza.
Controfiletto argentino
Fra gli altri antipasti, un grande classico peruviano è il ceviche di ricciola; buone le arepas colombiane, tortini di mais, fritti o anche al forno, imbottiti di vari ingredienti, come uovo, formaggio, fagioli, pollo, avocado e maionese. Ottime anche le empanadas argentine, fagottini o panzerotti di pasta ripieni di carne e altri ingredienti speziati, oppure di tonno, o anche gamberi, per gustarli come in Patagonia…
Per la carne, si va sul sicuro con alcuni piatti tipici argentini. Sono particolarmente consigliabili, il morbido maialino cotto a lungo a bassa temperatura; l’entrecôte (o controfiletto) argentino, cotto a puntino (basta chiedere quale tipo di cottura si desidera) e gustoso. La sorpresa, per chi non lo conosce, è l’entraña, ilmuscolo del diaframma, sopra alle costole, del manzo. Se cucinato perfettamente alla griglia, come lo fanno al Don Juanito, si rivela tenero, saporito e gustosissimo. Le proposte di pesce contemplano ovviamente il ceviche (di ricciola), la jalea de mariscos, fritto di…frutti di mare, con patata americana, il tamal en hojas de platano con rombo (rombo, platano maturo, patata, tutto cotto in foglie di platano) e un paio di altri piatti.
Il Torronte di M. Torino,
vino argentino.
Si possono accompagnare tutti con buoni vini italiani, francesi e anche argentini. Fra questi ultimi consigliabili, per esempio, il rosso Malbec Anteluna 1300 (la vigna cresce a 1300 metri d’altitudine); e il bianco Torrontes di Michel Torino, con vigneti a 1700 metri, nella Cafayate Valley, fresco, secco, dai sentori esotici e minerali.
Fra i dolci tipici, il Tres leches, i vari tortini al dulce de leche (crema a base di latte e zucchero) e il Don Pedro, un gelato anch’esso al dulce de leche, ma con mandorle tostate e un goccio di whisky, che rimette agli onori del mondo, se si fosse esagerato con i piatti forti.
Info. Restaurante andino Don Juanito, corso di Porta Vigentina 33, Milano, tel. 02.58431217, www.donjuanito.it. Orari: 11.30-15, 19.30-23 (sabato fino alle 24); domenica chiuso. Prezzi: menu d terra 47 €; menu di mare 52 € (ambedue prevedono 4 antipasti, 3 secondi e 1 dolce). Alla carta (antipasto, secondo, contorno e dolce): 39-51 €.

sabato 18 novembre 2017

Il nuovo Toscanino di Milano è roba da toscanacci. Niente risotti gialli, sushi o nouvelle cuisine: cibo, vino, cocktail e distillati sono tutti regionali. Ganzo!


Milano ha aperto le braccia ai toscani sin dall’Ottocento. Iniziarono col vino bono venduto a pochi centesimi nelle fiaschetterie. Ma già negli ultimi lustri del XIX secolo prosperavano locali eleganti come quello del fiorentino Aurelio Franzetti, che in via Paolo da Cannobio promuoveva pantagruelici cenoni di Capodanno. Gli osti toscani proponevano la cucina dei loro paesi, cioè le zuppe, i fagioli cotti nel fiasco sopra il camino e conditi con il loro olio, la bistecca (ribattezzata dai milanesi fiorentina), il castagnaccio.
Bice Mungai
Il mitico Giannino Bindi aprì il suo Giannino in via Scesa nel 1899 come fiaschetteria. Diventerà uno dei più famosi locali di Milano. Dopo la prima guerra mondiale fu la volta di un’altra generazione, quella della Croce, cioè del quadrivio ove s’incontrano le provincie di Pisa, Lucca, Pistoia e Firenze: da Fucecchio (patria di Montanelli) arrivarono i Gori (L’Assassino, Alla collina pistoiese) e i Pepori (Bagutta). Da Chiesina Uzzanese i Mungai (Bice e parecchi altri) e i Simoncini (Rigolo). E poi i Bocciardi, i Matteoni, i Cavallini…Non ne rimangono molti e, per altro, con gli anni quasi tutti hanno ridotto la parte toscana per inserire quella milanese-lombardo-piemontese, italico-internazionale. Ma perché si dovrebbe andare da un toscano per mangiarsi una costoletta (sì, con la “s”!) alla milanese? O per gli spaghetti sciuè sciuè?  Per un branzino all’acqua pazzaPer fortuna, c’è ancora qualche folle che non si arrende.
Questa comunque non è una storia di resistenza alla cucina italo-milanes-sino-giap-vegan-crud-peru-argentin-coreana, che pervade Milano, con esiti alterni. È la vicenda attuale di due toscani, Simone Arnaetoli e Laura Tosetti, che si sono messi in testa di aprire un ristorante, bar, libreria e bottega di cibi e vini toscani nella metropoli lombarda. Ahi. Già la poliedricità, la “maledetta” polifunzionalità del locale non depone a favore, smorza l’allegria di ritrovarsi in un sia pur moderno ristorante toscano. Però, una volta visitato e provato questo nuovissimo Toscaninoche andrebbe scritto ToscaNino, perché i proprietari l’hanno concepito più che come un piccolo ritrovo come un'accogliente magione, regno di due immaginari padroni di casa in cui lei, Tosca, cucina e lui, Nino, prepara i dolci - fa virare la perplessità verso l'entusiasmo. Ma bando alle metafore, veniamo al sodo. E la prima buona notizia è che qui non troverete né un piatto, né una bottiglia, un olio, una chicca gastronomica che non siano toscani. Persino i cocktail (c’è un piccolo banco ben fornito ove si alternano tre barman) hanno tutti solo ingredienti toscani e nomi toscaneggianti. 
Ma dove si trova il Toscanino? In un palazzotto all’angolo fra le vie Melzo e Lambro, a 5’ da Porta
Tirata-Pizza del Campo
Venezia: il locale si rivela piacevole già a un primo sguardo. Si entra e a sinistra non si può fare a meno di scorgere l’angolo della panificazione, con il forno, il lievito madre usato per produrre le specialità dell’arte bianca: lo Sbirulino, primo di tutto, pane salato, lungo, stretto e avvitato, gustosissimo, condito con olio extravergine. Tutto toscano negli ingredienti e d’ora in avanti non ripeteremo più la provenienza, tanto sempre quella è. Poi la Tirata bianca e rossa (con pomodoro di Donoratico), focacce con lievito madre e olio extravergine. Gli sbirulini vengono serviti in particolare con i taglieri misti di salumi e formaggi, anche con verdure e mostarde. Ce ne sono dieci e li si può ordinare nella versione stuzzichino (7-12 €) o in quella “Intero” (9-20 €). Indovinate un po’ i nomi? Leonardo e Puccini, Giotto e Raffaello, Vasari e Donatello. Giusto per rivelarne un paio: con il Puccini si va di cinta senese, prosciutto, salamino e pancetta; con Dante, di pecorini, compreso un “brie”, un fresco Primo Amore e mostarda di pomodori verdi. Raffaello preferisce invece paté di fegatini, pomodoro alla livornese e crema al tartufo.
Le tirate sono arricchite in superficie dagli ingredienti più vari ed hanno nomi di piazze: del Campo, dei Miracoli, Santa Croce…
Proseguendo la visita, ecco il corner dei salumi e formaggi e quello della carne (in vista splendide fiorentine); il salotto e il bar e un piano superiore. C'è posto a tavola per una settantina di avventori.
Piatti. Fra le paste fresche, ecco le pappardelline al ragù di cinghiale (foto a fianco), i tortellini mugellani (con ragù bianco di cinta senese), i ravioli maremmani. Non possono mancare le zuppe, fra cui la ribollita di San Giovanni. Si passa alla carne: certo, la fiorentina, anche di razza chianina, ma pure la trippa e il peposo dell’Impruneta (evviva), la tartara battuta al coltello e il tonno di chianina (con cipolle caramellate e fagioli al fiasco). 
Ma c’è il mare in Toscana? Sì che c’è e si chiama Tirreno, ma anche Ligure (quest’ultimo arriva fino all’Isola d’Elba). Perciò, ecco il polpo con patate dell’Amiata e olive toscanelle, seppie e totani con erbette in inzimino e, come dubitarne?, il baccalà alla livornese. Certo, piacerebbe vedere in menu, almeno ogni tanto, il mitico cacciucco livornese…Varie insalatone miste e infine i dessert “di Nino”: zuccotto fiorentino, pangrappa, panbriacone, cantucci di Prato e via addolcendosi sempre più. Bella selezione di vini ma anche birre artigianali, liquori, rigorosamente toscani, come anche le carte rivendicano orgogliosamente. Tutto vendibile per l’asporto: in questo caso il prezzo, per esempio di una bottiglia di vino, diminuisce di 4 €. Siamo alla fine, ma torniamo all’inizio. Perché il bar, merita un capitolo a parte. Affidato al gruppo aretino Cocktail in the world Mixology (www.cocktailintheworld.com ) vede alternarsi al bancone Danny Del Monaco (campione del mondo 2002 del Bacardi Martini Gran Prix e Personaggio dell’anno 2016 di Italia a tavola), Stefano Mazzi e Adrian Everest. Qui non è noioso ripetere, perché non ce lo si aspetterebbe, che tutti, ma proprio tutti
Il barman Stefano Mazzi
i distillati, i liquori, gli spumanti e gli altri ingredienti vengono dalla Toscana.
Per esempio, il Gin, ma anche vermouth e molti liquori sono prodotti dalla Numquam di Prato o da Peter in Florence vicino a Firenze, l’Aperit per il Tuscan Spritz da Santoni a Chianciano.
Il cocktail Negroni fiorentino
I bravi barman miscelano cocktail come il Toscanino (vino rosso, bitter al tabacco, pompelmo rosa, homemade ai fiori di sambuco, chinotto), il Negroni fiorentino, servito con arancia essiccata alla noce moscata, Mule il Magnifico (vodka, succo di limetta, gocce di amaro, ginger beer), Tuscan Spritz, Caterina de’ Medici, Santa Maria Novella, Forte dei Marmi e via toscaneggiando. E sorseggiando…a garganella. Ovvia.
Info. ToscaNino, via Lambro 7, ang. via Melzo, Milano, tel. 02.74281354, www.toscanino.comOrari:11-24 (il bar è in piana efficienza dalle 17 in poi). Chiuso domenica. Prezzi: cocktail 10-14 € (con taglierino, 2 € in più); primi piatti, 10-14 €; secondi, 15-20 €; fiorentina, 6-7,50 € l’etto; dolci 6 €; coperto (solo a cena), 2 €. Vini: da 12 € (Vermentino Caprili “Settimia” 2016) a 250 € (Solaia 2014).
*La foto d'apertura e quelle dei piatti sono di Alessandro Moggi

martedì 14 novembre 2017

Il dilemma di Appius 13: con chi andare a nozze?

Il Castel Valentin, circondato da vigneti di Gewürztraminer, che danno vita al dolce passito Comtess,
 della Cantina San Michele-Appiano.
Cominciamo col piatto. Sì, perché il vino si anima veramente non roteandolo in un calice di fine cristallo od osservandone in trasparenza le sfumature di colore, ma dopo un boccone di cibo. È allora che il potere un po’ misterioso di esaltare una pietanza o, al contrario, di peggiorarla, si sprigiona dal bicchiere (e naturalmente il discorso si potrebbe fare anche all’incontrario…).
Foto GL Moncalvi
Risotto ai frutti di mare...
Si torni dunque al piatto, a un piatto particolare, con una premessa. Il suo autore, Herbert Hintner, chef-patron del Zur Rose (Alla Rosa) di San Michele d’Appiano (1 stella Michelin), non è uno che ami tanto i risotti. Nei suoi menu di stagione di quest’ultimo anno se ne trova solo uno, della primavera scorsa, ed è il Risotto alla menta con lucioperca (inusuale, ma pregiato pesce d’acqua dolce). Ora, Hans Terzer, winemaker della Cantina di San Michele d’Appiano, qualche settimana fa, aveva un problema: organizzare, insieme a Herbert, la cena di presentazione del nuovo Appius 2013, un vino già di per sé straordinario perché ogni anno muta, almeno in parte, il mix di vitigni e la veste, cioè l’etichetta serigrafata della bottiglia.
Per gli altri vini della serata, tutti della linea Sanct Valentin, la più prestigiosa (e cara), gli abbinamenti erano stati trovati, discutendone e provandoli alla tavola del Zur Rose. Per l’Appius 2013 questa volta sembrava più difficile. Ma assaggiando e riassaggiando, alla prima H (Hans), ancora insoddisfatta, era scattata una scintilla.
- “E un bel risotto?”
...con Appius 2013: sviolinata di sapori (Foto Manfred Mair).
Non è che la seconda H (Herbert) avesse proprio storto il naso, ma insomma, lì per lì... Poi, dopo un minuto: - “Sì, va bene”, si mise a riflettere ad alta voce, “ma come caratterizzarlo? Con carne o vino no, sola verdura neanche…”
- “Dovresti farlo col pesce, ma non con lucioperca o altro pesce d’acqua dolce”, rispondeva H1.
- “Hai ragione”, si era entusiasmato H2, “dobbiamo prepararlo con tutti i crismi (i miei crismi, almeno) e deve sapere di mare, anche se non è nella nostra tradizione”.
Fine del dialoghetto morale fra i due H e inizio della piccola avventura gastronomica. Così, ad Appiano, comune di collina (sui 400 metri s.l.m.), in una provincia completamente montagnosa e la più settentrionale d’Italia, lo stellato H2 dovette ricorrere ai suoi fornitori di fiducia per far arrivare pesce freschissimo dall’Adriatico. Ed ecco come è stato fatto il risotto ai frutti di mare, su cui è poi caduta la scelta per l’abbinamento con l’Appius 2013: “Ho composto un fumetto di pesce brodoso con gli scarti di ricciola e branzino e l’ho utilizzato per cuocere il riso carnaroli. A parte ho fatto saltare in padella cozze, vongole, seppie e calamari con aglio e prezzemolo. Pronto il riso, ho impiattato e distribuito frutti di mare e molluschi sul risotto, completando con “puntini” di nero di seppia”.
Herbert Hintner, lo chef
Un piatto che H1 ha subito accolto con entusiasmo, probabilmente pari a quello dei suoi ospiti in cantina, quando l’hanno assaggiato qualche giorno dopo. Era la prima volta che Appius veniva abbinato a un piatto in cui il mare era protagonista; nel passato, la vendemmia 2010 era stata accostata a un baccalà con finocchio allo zafferano, ma si sa che il baccalà non è un pesce classico, subendo il merluzzo una particolare lavorazione; l’Appius 2011, a un petto di faraona con tartufo nero e porcini; il 2012, ad animelle di vitello con crema di patate. Insomma l’Appius, ha dispetto
Hans Terzer, l'enologo (Foto M. Mair)
della sua essenza d’uva bianca, aveva finora dimostrato tutto il suo carattere con piatti sostenuti, in cui prevalevano i sapori carnacei. E quindi, paradossalmente, quel bianco, con un piatto di pesce “normale” era un rischio. In realtà, tanto normale quel risotto non era: era un mix di sapori di mare che si fondevano e si mantenevano distinti al contempo, una meraviglia per il palato, che persino un vinaccio di seconda categoria forse non sarebbe riuscito a rovinare. Figuriamoci l’Appius 2013, la cui composizione – chardonnay al 55%, sauvignon al 25%, pinot grigio e pinot bianco per il restante 20% – nonché la maturazione in barrique e tonneau per un anno e il successivo affinamento sui lieviti in acciaio, ne hanno fatto un vino di grande personalità sì, ma con una sua delicatezza, con un frutto e un aroma intensi, ma bilanciati da un’acidità sostenuta.  Forse inutile sbilanciarsi sui vari sentori di frutta esotica, dalla papaya all’ananas, e di frutta nostrana, dalla pera William’s alla mela, sulla mineralità e l’eleganza al palato. Fatto sta che, come in una magica alchimia, il vino esaltava il piatto e il risotto invitava e gustare altro vino.
Cinquemila bottiglie, più alcune centinaia di magnum, fanno dell’Appius 2013 un vino piuttosto esclusivo, anche per il prezzo, che si aggira attorno ai 100 € la bottiglia.
Se l’Appius è il vino unico, fuori dagli schemi, che di anno in anno si diversifica dai suoi precedenti, in sostanza il re, la Linea Sanct Valentin rappresenta idealmente i 9 prìncipi della sua corte.
Anno di anniversari, questo 2017: 30 anni dalla creazione della Sanct Valentin, 40 della presenza di Hans Terzer nella Cantina San Michele-Appiano,  e 110 dalla fondazione della stessa (correva l’anno 1907). Ma che cosa è successo in quest’ultimo trentennio? Di tutto. Si sono quasi dimezzate le rese per ettaro, sono nati nuovi vini, la produzione Sanct Valentin dalle 6mila bottiglie iniziali si è stabilizzata oggi sulle 400mila, che spuntano prezzi finali di tutto rispetto sul mercato: fra i 19 € e i 25 € la bottiglia, per le annate 2013-2015, le ultime in commercio. Ai classici bianchi altoatesini, Pinot (bianco e grigio), Chardonnay, Sauvignon e Gewürztraminer si sono aggiunti i rossi Lagrein e Pinot nero, un Cabernet-Merlot e il Passito Comtess, il primo vino dolce del genere (un gewürztraminer) prodotto in Alto Adige. La linea Sanct Valenctin, nata come un cru specifico rappresentato dalle vigne attorno al Castello
Vini della Linea Sanct Valentin: bottiglie di nuovo design.
omonimo, oggi non è più fondata sui cru, o meglio si è trasformata in una selezione esasperata delle uve delle vigne migliori, poste sui circa 380 ettari vitati della cooperativa, coltivati da oltre 340 soci. Esempio virtuoso di come avere successo nel mondo del vino, perseguendo sempre come obiettivo la qualità. Che si ritrova, a livelli più che soddisfacenti, anche nelle altre linee meno care: la Classica (prezzi da 6,70 € a 10,80 € la bottiglia) e la Selezione (da 8,50 a 17,90 €). E la vendemmia 2017? Problematica per la quantità, ma non per la qualità, promette Hans Terzer. E chi vivrà degusterà.
Info. Cantina Produttori San Michele Appiano, via Circonvallazione 17-19, San Michele, Appiano sulla Strada del Vino (Bz), tel. 0471.664466, www.stmichael.itRistorante Zur Rose, via Innerhofer 2, San Michele, Appiano, tel. 0471.662249, www.zur-rose.com. Orari: 12-14, 19-21.30 (chiuso domenica e lunedì a mezz.). Prezzi: carta, da 61 € (primo, secondo e dessert); menu, da 68 €.