mercoledì 26 marzo 2014

Il pranzo di Babette reinterpretato: meglio "le" Jeunes Restaurateurs o Walter Eynard?


Le chef che hanno realizzato il menu "di Babette" con Cristina Ziliani
(terza da destra), padrona di casa a Palazzo Lana Berlucchi di Borgonato


Brodo di tartaruga, blinis Demidoff, cailles en sarcophage: tornano i piatti della cena di Babette, celebrata nel libro di Karen Blixen (Babette’s Feast) e resa famosa dal film di Gabriel Axel Il pranzo di Babette (premio Oscar). Lunedì scorso, alla cena di gala dei Jeunes Restaurateurs d’Europe italiani (JRE, www.jre.it), a Palazzo Lana Berlucchi di Borgonato (Brescia), il menu era ispirato a quel famoso pranzo letterario: ai fornelli alcune chef (tutte donne) dei JRE, tra cui Anna Matscher, Marianna Vitale, Iside De Cesare, Carla Aradelli, Nadia Moscardi e Fabrizia Meroi.
Sarà un maschio, invece, a raccogliere la sfida di Babette domani sera, giovedì 27 marzo. Walter Eynard, già chef e patron dello stellato Flipot di Torre Pellice e ora titolare del ristorante di Cherasco (Cuneo) che porta il suo nome (nel complesso del Monastero, via Nostra Signora del Popolo 9, tel. 0172.488482), si metterà ai fornelli seguendo il canovaccio immaginato da Karen Blixen. Ancora poco si sa sulla (re)interpretazione che proporrà Eynard: ci saranno naturalmente i blinis Demidoff (con caviale, quale? Con panna acida?). Ci sarà il brodo di tartaruga, come l’originale? Le cuoche dei JRE l’hanno sostituito, come vedremo, con brodo di rane. E poi le cailles en sarcophages, cioè le quaglie in crosta, a quanto pare servite con salsa périgourdine (caratterizzata da tartufo nero e Porto). La cena, che contempla altre portate, costa 75 € a persona, vini compresi.
La reinterpretazione del Pranzo di Babette da parte dei JRE contemplava una serie di golosi stuzzichini (ovviamente non presenti nel menu originale) come l’anguilla affumicata con foie gras e rapa rossa, il gazpacho flegreo con ostriche e il cheese cake di baccalà, accompagnati dal Franciacorta Cellarius Rosé. Gli altri eccellenti Franciacorta che si sono poi susseguiti a tavola: una cuvée particolare, la Cellarius JRE, il cui dosaggio (quantità di zucchero) è stata scelta dai Jeunes Restaurateurs, il Palazzo Lama Extrême, la Cuvée Imperiale Max Rosé e un ottimo rosso, il Bolgheri superiore Caccia al Piano Levia Gravia.
Brodo di rana anziché di tartaruga,
reinterpretazione di Aurora Mazzucchelli
Trota marinata con blinis al caviale
di Iside De Cesare
Ed ecco i piatti forti della serata. Aurora Mazzucchelli, chef del ristorante Marconi di Sasso Marconi (Bologna) ha reinterpretato il brodo di tartaruga, chiamandolo La Joie du Pape, forse perché papa Francesco pare sia un grande estimatore del film di Axel. Al posto del brodo di tartaruga ha utilizzato, dopo vari esperimenti, quello di rana, integrandolo con verdurine, pezzetti di cosce dello stesso anfibio e polpettine. Eccellente. 
Iside De Cesare, chef col marito Romano Gordini, de La Parolina di Trevinano Acquapendente (Viterbo) ha interpretato i blinis Demidoff mantenendo il caviale e aggiungendo su una salsina verde di cetriolo, tre cubetti di trota marinata. Buon piatto, forse con marinatura e salsa dal sapore troppo delicato. Carla Aradelli del ristorante Riva, di Ponte dell’Olio (Piacenza), ha cucinato le cailles en sarcophages presentando una quaglia ripiena in cocotte croccante e germogli di grano: molto buona la carne, poco commestibile l’involucro di pasta di pane, piuttosto duretto. È toccato infine a Nadia Moscardi, del ristorante Elodia de L'Aquila-Camarda, presentare un dolce savarin (di cui, nel libro almeno, non v'è traccia), integrandolo con prodotti abruzzesi, come il liquore Aurum e lo zafferano.

Cailles en sarcophage, ovvero, nella versione di Carla Aradelli, quaglia ripiena
in cocotte croccante e germogli di campo

Sono un’ottantina i JRE in Italia, oltre 500 nel resto d’Europa. Bisogna avere meno di 37 anni per essere accolti fra le loro file (oltre ovviamente a sposarne nei fatti la filosofia, che prevede di valorizzare sempre i prodotti del territorio, esaltandone i sapori attraverso la ricerca e la creatività); oltre 45 anni per diventarne poi soci onorari. Circa il 20 per cento sono donne. La quota rosa apparentemente ristagna, in realtà cova sotto le ceneri e il fuoco potrebbe divampare da un momento all’altro. 
Se n’è avuta una piccola riprova nel corso del convegno, seguito al congresso annuale (il 21°), durante la tavola rotonda intitolata: “Chef e imprenditoria, un’opportunità solo maschile?”. Coordinata dalla giornalista Valeria Palumbo, ha visto la partecipazione di quattro imprenditrici di successo (Marina Colombo, Rina Menardi, Cristina Nonino e Cristina Ziliani) e due JRE, Marianna Vitale e Iside De Cesare. Quando il presidente dei “Jeunes” Andrea Sarri ha argomentato sulla mancanza di creatività in cucina delle donne, tuttalpiù relegate al rango di “ragioniere” dell’impresa, ha ricevuto riepliche cortesi ma argomentate da tutte. E non ha potuto far altro che alzare le mani. In alto.

martedì 18 marzo 2014

Effervescente e biologica. È l'Oasi Fai da te








“Un pezzo di Campania intatta. Una campagna che in certi punti ricorda l’Inghilterra, con le sue enormi querce e gli ampi coltivi. È come se si trattasse di una regione diversa da quella, sciagurata, della terra dei fuochi”. Chi parla così è Marco Magnifico, vicepresidente esecutivo del Fai, il Fondo per l’ambiente italiano. E l’oggetto del suo commento si trova nel comune di Riardo, unborgo di bassa collina della provincia di Caserta, a pochi km dallo storica cittadina di Teano. È l’Oasi Ferrarelle Fai, che s’inaugura ufficialmente il 22 marzo, in occasione della ventiduesima edizione delle giornate Fai di primavera. 750 luoghi aperti a tutti in tutta Italia e visitabili appunto sabato 22  e domenica 23 (www.giornatefai.it). Fra questi, uno un po’ speciale è rappresentato dall’Oasi Ferrarelle. Fino a pochissimi anni fa era un luogo sì incontaminato, ma anche in preda all’abbandono, se non fosse stato per lo stabilimento di imbottigliamento delle acque Ferrarelle, Natia e Santagata. La Ferrarelle è nota per la sua effervescenza naturale, che si genera grazie a un percorso sotterraneo che compie attraverso le rocce vulcaniche di Roccamonfina e Monte Maggiore. La naturalità dell’effervescenza è certificata dall’ente internazionale Sgs. Per trasformare l’area di 145 ettari in un’oasi biologica ci sono voluti circa tre anni e una parte del progetto dev’essere ancora realizzata (in cantiere la produzione di una birra, la ricostruzione dell’antica Taverna Saliscendi e la ristrutturazione della masseria Loffredo).

Il Fai ha avuto la parola definitiva su tutto, il restauro delle masserie, la scelta delle coltivazioni, il mantenimento di parte della flora originaria. Ferrarelle ha dovuto costituire l’apposita società agricola Masseria delle Sorgenti srl.  Dal 2010 sono state messe a dimora colture storicamente presenti nella zona, come il grano duro, il grano tenero e il nocciolo. È stata arricchita la flora del parco, piantando nuovi alberi e ulivi (oggi oltre 10.000) e sono state collocate 100 arnie. È stata poi ristrutturata la Masseria Mozzi (della fine del 18° secolo), che oggi ospita il ristorantino. 

Masseria delle Sorgenti è anche il marchio sotto cui già si producono e commercializzano prodotti biologiciolio extravergine d’oliva (si punta alla costituzione della quinta Dop campana, Terre Aurunche), quattro varietà di miele e pasta artigianale (realizzata a Gragnano).
Così tutto è pronto per i visitatori, che saranno accolti al Punto Fai, visiteranno la fabbrica di imbottigliamento Ferrarelle con un percorso sopraelevato e poi potranno inoltrarsi nel parco, fra i prati e il bosco di querce, in una zona intatta e recuperata. Poi, tutti a pranzo in masseria (tre menu, a 20, 25 o 30 €, acqua e vino compresi). Si assaggeranno pancotto coi broccoli e frittata, formaggi e salumi; poi, pasta alla Norma o pasta e fagioli; maialino al forno con patate o pollo in umido con involtino di melanzane; dolci e caffè. Ma dicono un gran bene anche della pizza. Del resto siamo in Campania. Nella parte migliore.
L’Oasi Ferrarelle Fai (www.ferrarelle.it/per-un-mondo-migliore/la-natura-lambiente.html) è aperta tutti i sabati e le domeniche; gli altri giorni, solo su prenotazione, per gruppi.

Riardo (bandierina rossa) è il piccolo comune dove si trova l'Oasi Ferrarelle Fai. Dista 2 ore d'auto circa 
da Roma (173 km), un'ora da Napoli (64 km), 45' (38 km) da Caserta (cartina tratta da www.viamichelin.it)








martedì 11 marzo 2014

Il Parmigiano Bertinelli incontra la Grappa trentina. Ed è subito musica


Mah. Una degustazione di Parmigiano-Reggiano con l’abbinamento di Grappa trentina? Poteva inventarsela solo uno come Nicola Bertinelli, titolare dell’omonimo caseificio. E dove? Nel suo ristorante-bar-negozio-discoteca con piscina, a fianco, anzi nello stesso stabile, del caseificio. Così, un po’ scettici, ci si siede a tavola e si comincia. Pronti-via, il primo abbinamento. Un pezzetto de Il Senza  con un bicchiere a mezzo tulipano di Grappa di Nosiola Pisoni (www.pisoni.it). Che cos’è questo Senza? Un’invenzione del patron Nicola. È un formaggio senza zuccheri, senza lattosio, senza glutine, senza additivi e conservanti. C’è anche qualche “con”. Con caglio vegetale, con acidi grassi Omega 3,
Nicola Bertinelli
ad alto contenuto di calcio e fosforo, con proteine “di elevato contenuto biologico”. Indicato quindi per celiaci, intolleranti al lattosio, vegetariani eccetera. E com’è? Lo si assaggia con malcelata diffidenza per scoprire subito che di qualcosa sa. E sennò, in effetti, perché “invecchiarlo” oltre 60 giorni? Si sente ancora il latte, però con accenti più profondi; sembra compatto ed elastico a toccarlo, ma poi in bocca rivela una certa granulosità. Il sapore c’è, e in effetti ricorda quello del Parmigiano, ma più dolce, proprio un parente giovane. Un sorso di Grappa di Nosiola, delicata, morbida, con leggeri sentori di nocciola e qualche ricordo di frutta esotica, l’accompagna bene. Insomma, il primo ostacolo (soprattutto mentale) è superato senza danni.

Si entra nel vivo. Il programma prevede: Parmigiano di 24, 30, 36 e 48 mesi, abbinati ad altrettanti distillati. Sono i formaggi al top della produzione: Nicola Bertinelli li ha chiamati “i millesimati”, facendo riferimento non tanto all’anno di produzione, ma alla qualità particolare che di solito hanno i vini millesimati, cioè di un’annata sola (almeno in Champagne). La marcia in più deriva dal latte delle bovine che hanno partorito da pochi giorni (al massimo 100), un concentrato di calcio e proteine, che può così essere cotto per meno tempo del normale, trasferendo al formaggio il bouquet del foraggio: fragranza, sentori di erba medica, a volte qualche accenno di cuoio. Perché in questa azienda tutto è prodotto all’interno: appunto dai foraggi di erba medica (freschi -non insilati - e ricchi di batteri “buoni”), raccolta con cura maniacale nel momento in cui la rugiada è giusta, alla cura e all’allevamento del proprio bestiame nei cascinali, alla scelta del latte e sino alla produzione di non più di venti forme al giorno.
Il Parmigiano 24 mesi viene abbinato con la Grappa di Traminer Segnana (www.segnana.it ), aromatica, dai sentori di rosa appassita, che si sposano piuttosto bene con certi profumi di fieno del formaggio. Il 30 mesi con una grappa di vinaccia rosse di Marzemino, della Merzadro (www.merzadro.it), piena, fragrante, che conserva ancora un fine sentore di violetta, tipico del vino.
È poi la volta di un 36 mesi abbinato alla Grappa Solera Selezione di Segnana, un blend  di vinacce chardonnay e pinot nero, da cui prende vita un distillato rotondo e complesso che si confronta da pari a pari con il sapido e sfaccettato Parmigiano di tre anni. Forse l’abbinamento più azzeccato. Infine, quasi un fuori programma, il Parmigiano di 48 mesi, ancora fresco nella sua sapidità, senza spunti amari, come spesso succede nei formaggi invecchiati, maritato con la Segnana Estrema: 40% da vinacce chardonnay dello spumante Ferrari, 60% di merlot e cabernet, 50° alcolici: complessa, ma rotonda e di buona armonia, non soffoca il 48 mesi solo per la grande personalità che il formaggio dimostra, con un arco di sentori, sostenuti dalla sapidità, che spazia incredibilmente ancora dal latte fino al cuoio.
La degustazione – seguita poi dalla cena – si è svolta nella sala-ristorante del cosiddetto Caseificio della musica, con le grandi vetrate che danno sulla piscina all’aperto da un lato, il bancone del bar e poi il negozio di cose buone dall’altro, ove si acquista il Parmigiano, ma anche altri prodotti gastronomici della zona, che è quella di Medesano di Noceto, a 18 km da Parma. In poco più di una decina d’anni Nicola Bertinelli (41 anni, lauree in Scienze agrarie ed Economia e commercio, per tre anni professore di Economia in Canada) ha trasformato l’azienda agricola di famiglia, socia di una cooperativa di produzione del formaggio, in un caseificio integrato dove non solo tutta la filiera della produzione, dal foraggio agli animali alla trasformazione del latte è di proprietà, ma attorno al quale ha sviluppato le nuove attività: prima il bar e il negozio, poi il ristorante, con pubblici diversi, aperti dal mattino presto a notte fonda e infine la musica dal vivo, soprattutto venerdì e sabato sera, con spuntino finale, magari alle 4 del mattino.
Il bancone del bar e,
in fondo...
...il negozio con vista
sul caseificio

Intanto nella sala accanto al bar-negozio, visibile in qualsiasi momento da un finestrone interno, il latte della prima mungitura serale riposa in attesa di congiungersi con quello della seconda mungitura del mattino. Alle 8 i due operai, marito e moglie sotto la direzione della casara Catia Zambrelli, raccolgono la parte grassa della prima mungitura – che diverrà burro – poi mescolano i due latti nelle caldaie di rame, aggiungono caglio e siero innesto, per ottenere la cagliata.  Si procede quindi alla cottura che raggiunge i 55°, al termine della quale i granuli caseosi precipitano sul fondo un’unica massa.
Poco meno di un’ora dopo, la massa caseosa viene estratta dal casaro. Tagliato in due parti e avvolto nella tipica tela, il formaggio viene immesso in una fascera che gli darà la sua forma definitiva. Con l’applicazione di una placca di caseina, ogni forma viene contrassegnata con un numero unico e progressivo. Una speciale fascia marchiante incide quindi sulla forma la data di produzione, il numero di matricola che contraddistingue il caseificio e la scritta a puntini su tutta la circonferenza delle forme, che a distanza di pochi giorni vengono immerse in una soluzione di acqua e sale. È una salatura per assorbimento che in poco meno di un mese conclude il ciclo di produzione e apre quello della stagionatura. Durerà almeno 12 mesi, per legge, ma da Bertinelli si parte da almeno 15, prima di mettere le forme in commercio, e la gran parte ha fatto in realtà da due a tre anni di maturazione.
Allegria e serietà, serietà e allegria, insomma, sembra essere la formula vincente dell’economista che volle farsi casaro, barman, ristoratore, dj. E ci riuscì.
Info. Caseificio della musica Bertinelli, via Medesano 1, Noceto (Parma), tel. 0521.620776, www.bertinelli.it. Altri punti di vendita diretta: a Parma, Progetto latte, c/o Centro commerciale Torri; a Fidenza, Barlumeria (bar, ristorante, salumeria) c/o Fidenza Village.

martedì 4 marzo 2014

Riedel, l'anno del cavallo (e della Coca-Cola)


Il decanter Amadeo double magnum e Maximilian Riedel
Finalmente Riedel si rilassa. Dopo aver bevuto Bordeaux e Riesling, Borgogna e Brunello, Montrachet e Barolo, ha deciso di sciacquarsi la bocca con una bottiglietta di Coca-Cola. Ma, ohibò, i bicchieri in giro non gli sembravano adatti al pizzicore della bevanda e al suo sapore dolcemente citrino. E allora, se ne è fatto uno nuovo di zecca.
Riedel è un’azienda austriaca di bicchieri e decanter d’alta gamma, a conduzione familiare da oltre 250 anni. Attualmente è guidata da Maximilian Riedel, 37 anni, ceo e direttore generale, mentre il padre George Riedel (64) conserva la carica di direttore generale della Riedel Glass Austria. Ha stabilimenti di produzione anche in Germania, ed è celebre per i suoi bicchieri di cristallo, soffiati a bocca o a macchina, dalla forma differenziata e maggiormente adatta a ciascun tipo di vino.
Coca-Cola e il suo nuovo bicchiere
griffato Riedel
Un anno fa la Coca-Cola ha chiesto alla Riedel di studiare un bicchiere apposito per la sua famosa bibita: George Riedel ha allora coordinato un gruppo di degustatori esperti, che hanno provato la Coca in vari tipi di bicchiere. Sulla scorta dei loro suggerimenti, l’azienda ne ha sviluppato uno, in vetro, che è stato alla fine approvato come il migliore per esaltare il gusto della bevanda. Il bicchiere è ispirato alla forma della bottiglia “contour” della Coca-Cola stessa (brevettata nel 1915) ed è ora in vendita al prezzo di 15 € (19,99 $ negli Usa).
Un assaggio effettuata nello showroom di Kufstein, in Austria, dove si producono esclusivamente bicchieri e decanter in cristallo al piombo, realizzati a mano e soffiati a bocca,  ha dato la prova di quanto il contenitore sia importante al fine di percepire i sentori delle bevande. In un normale bicchiere non si avvertivano odori particolari e l’effervescenza della Coca risultava scarsa, mentre dal nuovo bicchiere escono aromi inaspettati, la dolcezza si fa più complessa, amaricante e agrumata, le bollicine persistono.
Certo, una bella dimostrazione di tecnica applicata alla fantasia progettuale quella di Riedel (e un bel business, presumibilmente: è la prima collaborazione dell’azienda di Atlanta con un altro marchio, sia pure di risonanza mondiale anch’esso, ma di ben altra gamma).
Ovviamente chi ama il vino preferisce la miriade di invenzioni che Riedel negli ultimi trent’anni ha messo in piedi per gustarne al meglio ogni tipologia possibile di bianco, rosso o rosé, fino ad arrivare ai calici per liquori, distillati e cocktail (curiosissima una coppetta martini, dallo stelo traforato, per accogliere il cocktail in modo che il liquido non rischi di debordare dagli orli, mentre si passeggia durante un party).
Kufstein è una cittadina di circa 15mila abitanti, sulle rive del fiume Inn, in quella parte del Tirolo che è
Bicchieri della serie Sommeliers: in alto e al centro
con bevante nero; lo stelo rosa
è realizzato con una striscia di vetro rosso inserita nel cristallo chiaro
più vicina alla Baviera (Germania), a metà strada fra Innsbruck e Salisburgo. Ha un centro storico raccolto, ma di fascino, dominato da un’antica fortezza, con belle stradine che sfoggiano archi medievali e ristorantini di solida cucina tirolese. Come l’Auracher L
öchl (Römerhofgasse 4, tel.+43.5372.62138, www.auracher-loechl.at), che nei suoi locali tradizionali propone tapas tirolesi (vabbè, perdoniamo la commistione ispano-austriaca della definizione), spätzle di Kufstein al formaggio, duetto di canederli, gulasch con pane rustico e tafelspitz alla viennese, con midollo, patate al forno e varie salse (due piatti, sui 30 €).
Non lontana dal centro sorge il moderno edificio che ospita la Riedel, con lo showroom, compreso il reparto delle offerte scontate, e la fabbrica-atelier dei bicchieri. Qui lavorano operai-artigiani che soffiano il vetro con lunghi e stretti cannelli metallici. Il cristallo si ottiene fondendo nel forno un insieme di sostanze, dalla sabbia silicea ai vari carbonati, all’ossido di piombo. Ma come trasformare la massa incandescente in un bicchiere di cristallo? Vi provvedono diversi pool di operai specializzati, un tempo composti addirittura da 11, oggi ridotti a 4 o 5 persone, essendo state le altre sostituite da piccole attrezzature e, per quanto riguarda il calore dei forni, dal computer. Ogni operaio (ma spesso si tratta di artigiani, per non dire maestri veri e propri) ha le proprie mansioni, ma tutti devono lavorare in maniera strettamente coordinata. Viene prelevata una giusta quantità di cristallo liquido dal forno con una canna: la materia incandescente viene passata a un soffiatore che la prepara e la modella, poi il vetro incandescente viene introdotto nello stampo, prende forma e viene estratto. Quindi si attaccano il gambo e poi il piede. Occorre poi temperare il futuro bicchiere, riportando il pezzo dai 150/200° cui è stato abbassato durante le prime lavorazioni, a 350-400° e quindi ulteriormente raffreddato. Infine gli va tolta la calotta di cristallo che ha fatto presa precedentemente e infine va rifinito. L’ambiente è caldo (molti lavorano in pantaloni corti e maglietta), ma non certo “infernale” come doveva essere nei tempi passati. E conserva non poco dell’antico fascino che avevano le vetrerie di un tempo, il fuoco, i soffiatori, la magia del cristallo che prende forma e in certi casi si colora, grazie alla sapiente aggiunta di selenio (per il rosa) cobalto (per il blu), ossido di rame (per il verde), cadmio per il rosso e così via.
Tutti i procedimenti si possono osservare dall’alto, da una balconata da cui si spazia sul grande locale. Si può anche godere lo spettacolo multimediale Sinnfonie, una sorta di viaggio sensoriale che rivela la filosofia del gusto che sta alle spalle di ogni bicchiere e decanter di Riedel.
Caraffe e decanter
Decanter Horse
La pietra miliare della Riedel è la collezione Sommeliers, del 1973, progettata secondo i principi della scuola della Bauhaus: la forma segue la funzione. Sono seguite le linee soffiate a macchina (nello stabilimento bavarese del gruppo) come Vinum e Ouverture (quest’ultima in vetro), la O, linea varietale specifica a forma di tumbler e varie altre. Finalmente, nel 2008, Riedel crea una nuova linea di cristallo a lavorazione manuale, la Sommeliers Black Tie, con stelo nero per il vino rosso oppure base nera per il bianco, elegantissimi.
Ma il campo in cui la fantasia dei designer si è più sbizzarrita è quello dei decanter (e qui c’è quasi sempre la mano di Maximilian Riedel). Fra le ultime novità, l’Amadeo a forma di lira (lo strumento musicale), Il Titano boa (solo 500 pezzi) a doppia decantazione, l’Horn, a corno postale, il nuovissimo Horse, in occasione appunto dell’anno del cavallo cinese, il 2014, con un profilo equino all’interno. “Il profilo concavo del decanter”, sostengono alla Riedel, “aiuta anche il processo di decantazione del vino. Dopo aver versato il vino nel decanter, scuotere gentilmente sino alla formazione di un sottile strato di bollicine, che aiutano a ossigenare il vino, aumentandone l’areazione e valorizzando gli aromi e i caratteri del vitigno”. Chapeau. Anzi, no, Verre (bicchiere) per continuare col francese. Enfin, on boit. E il vino? Non tavernelle, s’il vous plait…
Info: www.riedel.com/it