lunedì 28 gennaio 2019

Santinumi, che vino! Sempre in evoluzione: come la Costoletta d'agnello al tartufo e foie gras di Claudio Sadler



Nella cartina, le principali proprietà agricole della Marchesi de' Cordano. I vigneti più estesi
si trovano a Loreto Aprutino e a Villamagna
Qualcuno azzarda un abbinamento audace: con un buon sigaro Avana, magari un Montecristo N. 5. Oh Santi Numi! Lo stellato Claudio Sadler, dell’omonimo ristorante di Milano, l’ha invece proposto col piatto principale di un menu ad hoc, L’evoluzione della costoletta di agnello farcita di tartufo nero e foie gras in crosta di pane e mandorle tostate. Titolo lungo, che spiega molto, ma non la bontà di un piatto dai sapori complessi che ben si sposano: la tradizione dell’agnello abruzzese che vira però verso la grande cuisinefrancese con l'impiego di tartufo nero e fegato grasso. Il matrimonio è quello col vino: Santinumi. Già, un’esclamazione un po’ desueta da appioppare a un rosso serio ma
L'evoluzione della costoletta...
trendy come questo Montepulciano d’Abruzzo Doc Riserva 2012, della cantina Marchesi de’ Cordano, di Loreto Aprutino. Il colore è rubino, al naso salgono note intense di frutta rossa e, più sfumate, di agrume. In bocca è asciutto, sapido, con note tostate, caffè prima, poi tabacco, ma anche più dolci di vaniglia, probabilmente dovute al passaggio nelle piccole botti.
Il Montepulciano Santinumi
Vino veramente d’eccellenza, costruito minuziosamente, prima in vigna e poi in cantina: dopo il primo breve appassimento dei grappoli in pianta, il mosto rimane tre settimane sulle bucce con periodici rimontaggi e decantazione in botti grandi. Seguono tre anni così ripartiti: il primo, in botti da 50 hl, il secondo in barriques (228 litri) e l'ultimo in bottiglia. In cantina c’è l’enologo Vittorio Festa, consulente di una trentina di aziende vinicole abruzzesi e marchigiane. Uno che nel suo sito Internet porta in epigrafe questo verso di Pablo Neruda: “Amo sulla tavola, quando si conversa, la luce di una bottiglia di intelligente vino” (da Ode al vino). 
La Marchesi de’ Cordano è un’azienda vinicola familiare che fa capo a Francesco D’Onofrio (40 anni), che l’ha creata nel 2000. D’Onofrio non vanta quarti di nobiltà, semplicemente intitolando la sua impresa ai de’ Cordano ha voluto celebrare il marchese Ferdinando Cordano, fiorentino, che avendo ereditato nel 1723 dalla madre una proprietà nella circoscrizione di Lauretum(oggi Loreto Aprutino), diede luogo in pochi anni a una consistente e riconosciuta produzione vinicola. L’attuale azienda si basa su 17,43 ettari disposti nella storica tenuta di Santa Caterina, terreni collinari di origine calcarea, tra i 250 e i 300 metri d’altitudine. Loreto Aprutino, il comune di riferimento, si trova a 27 km da Pescara, a metà strada tra il Gran Sasso e l’Adriatico. Ma gli ettari vitati in realtà sono 50, sparsi anche in altre località: in provincia di Chieti Villamagna (oltre 18 ettari), Canosa Sannita e Bucchianico, in provincia di Pescara, Civitaquana e Spoltore, in quella di Teramo, Campli e in quella dell’Aquila la piccola tenuta di Ofena (500 m. s.l.m.). Si coltiva soprattutto Montepulciano, poi Trebbiano, Pinot grigio, Cococciola e Passerina, ma anche Chardonnay e Pinot nero.
La cantina delle barrique.
La cantina è stata rinnovata nel 2011 e contempla, accanto ai lucenti tini d’acciaio, botti piccole e grandi. Ma naturalmente le operazioni per produrre vini di classe inizia in vigna, con le uve coltivate biologicamente, e poi con la vendemmia manuale protratta nel tempo per cogliere gli acini nei loro momenti migliori e portarli poi velocemente in cantina a scanso di ossidazioni.
Le uve bianche, appena raccolte vengono raffreddate con ghiaccio secco per preservarne al massimo i sentori primari, per essere poi pressate in assenza di ossigeno. La vinificazione delle uve rosse è invece tradizionale. Dopo la fermentazione (provocata da lieviti autoctoni selezionati direttamente in vigna) con i vari rimontaggi, si passa alla maturazione nel legno, sia in botti grandi da 25 o 50 hl sia in barrique.
Il risultato finale di queste operazioni così minuziosamente effettuate sono vini monovitigno (tranne un’eccezione costituita da un spumante classico), piuttosto concentrati e complessi, soprattutto i rossi, ma profumati e sapidi, per una produzione totale di circa 200mila bottiglie.
Vediamone alcuni.
Il vitigno Trebbiano, è stato rilanciato come un’uva di qualità qualche decennio fa da Edoardo Valentini, grande produttore abruzzese. Da allora, riducendo le rese per ettaro e con altre tecniche di vigna e cantina, il vino ha espresso le sue potenzialità nascoste in varie parti d’Italia e particolarmente in Abruzzo. L’Aida,Trebbiano d’Abruzzo Doc 2017 della Marchesi de’ Cordano, fermenta a
Brilla Cococciola
temperatura controllata e fa solo acciaio. In bocca è fresco, anche morbido, di buona sapidità, mentre al naso presenta sentore di fiori bianchi, pera e frutta tropicale. Da aperitivo, con finger food, risotto alla marinara, pesce alla griglia. Circa 6mila bottiglie, sui 12 € l’una.
Brilla è una Cococciola Colline Pescaresi Igp 2017. Il vitigno, ancora poco noto, è diffuso soprattutto in Abruzzo, dove il vino può fregiarsi della Doc regionale e in dieci provincie, anche pugliesi, come Igp. Il vino fermenta e matura in acciaio con i consueti accorgimenti: pressatura soffice a freddo in ambiente inerte, decantazione statica del mosto, fermentazione a temperatura controllata e affinamento per circa 4 mesi, sempre in acciaio. Il colore è giallo paglierino, il profumo è di erbe fresche e fiori d’acacia, poi agrumi, ma anche di mela e pesca bianca. In bocca, sapido, di buona acidità ben contrastata da una certa morbidezza glicerica. Claudio Sadler l’ha proposta sui Ravioli di pesce spada farciti di melanzana perlina, con bagnetto giallo e zafferano ellenico.E ha indovinato. Abbinamenti più prosaici: orecchiette con salsa di noci, sagne chietine, brodetto dell’Adriatico. Un’ultima osservazione. Un vino come la Cococciola, che sembra destinato a un consumo veloce, entro 2/3 anni dalla vendemmia, ha dimostrato di esaltare le sue potenzialità anche dopo 8 anni di conservazione in cantina: allora il fruttato si fa più maturo ed emerge qualche sensazione minerale (pietra focaia) e tostata (caffè).  Circa 13mila bottiglie, sui 15 € l’una. 
Il Pecorino è ormai da qualche anno un vino di un certo successo e non poteva mancare nella produzione della Marchesi de’ Cordano. Si chiama Diamine, è un Colline pescaresi Igp 2017, fa solo acciaio, e appare fresco e di un certo corpo, con bei profumi di frutta esotica. Buon abbinamento con il piatto sadleriano Gnocchi di funghi trombetta con astice, crauti, cumino e salsa di speck, audace, ma riuscita commistione di elementi altoatesini, marinari e delle terre appenniniche, come appunto il fungo trombetta (conosciuto anche come “tartufo dei poveri”). 30mila bottiglie circa, sui 15 €.
Del Santinumi Montepulciano Riserva si è già detto. Va precisato che di Montepulciano in produzione ve ne sono altri, che si diversificano a volte per la provenienza delle uve, più spesso per la diversa maturazione. Così l’Aida fa 9 mesi in botti da 25 hl; il Trinità Riserva 1 anno in barrique e 1 anno in bottiglia. Nel listino della cantina ci sono anche uno spumante metodo classico da uve pinot nero e chardonnay, il Santa Giusta, un brut fresco, pieno e dotato di una sua morbidezza. E, dulcis in fundo, un Passito Rosso Colline pescaresi Igp, da uve montepulciano, lasciate appassire per circa
Francesco D'Onofrio e l'enologo Vittorio Festa
due mesi in pianta. Quasi sublime col liquoroso e “cafferoso” bocconotto di Castel Frentano.


Info. Marchesi De’ Cordano, contrada Cordano 13, Loreto Aprutino (Pescara), tel. 085.8289526,  www.cordano.it. A Villamagna (Chieti), la famiglia D'Onofrio nell'omonimo Oleificio di via Piana 85 (tel. 0871.300106, www.oliodonofrio.it) produce da tempo una serie di olii, anche biologici,  di pregio: dalla Dop Colline Teatine ai monocultivar Olivastro, Gentile, Intosso ai blend Leccino/Gentile e Leccino/Gentile/Intosso.
Sadler: Ristorante, via Ascanio Sforza 77, Milano, tel. 02.58104451; Trattoria moderna Chic'n Quick, stesso indirizzo, tel. 02.89503222. https://sadler.it

martedì 22 gennaio 2019

Con l'Ovum e con la lava si fanno i grandi vini. Palmento Costanzo, una storia emblematica sui versanti dell'Etna

La botte francese Ovum (da 2000 litri) accanto ad altre botti più grandi nella cantina di Palmento Costanzo
Castrileonis, castello del leone (intendendo il felino come sinonimo di regalità): è il toponimo antico di Castiglione di Sicilia (3mila abitanti circa) e risale al 1092. Oggi Castiglione, che si estende dalle pendici settentrionali dell’Etna fino alla cima, fa parte del network dei Borghi più belli d’Italia e delle Città del Vino. Ed è proprio il vino dell’Etna il protagonista di questa storia che si svolge tuttora in una frazione di Castiglione, il piccolo borgo di Passopisciaro (502 abitanti). Anche questo nome è singolare, in italiano significa passo del pescivendolo, denominazione legata a una torbida leggenda del periodo borbonico, secondo la quale il brigante Ciccu Zummu per raggirare un Capitano di giustizia di Randazzo, coinvolse un povero pescivendolo, che però rimase ucciso. Da cui il nome del luogo, in dialetto Passu du pisciaru, poi Passopisciaro. 
Valeria Agosta
Qui, in contrada Santo Spirito, fin dalla fine Settecento, c’era un palmento, una costruzione in pietra lavica che serviva per la vinificazione. Una decina di anni fa gli attuali coniugi proprietari Valeria Agosta Mimmo Costanzo decisero di ristrutturare il palmento abbandonato, conservandone la struttura e le caratteristiche storiche, secondo i principi della sostenibilità ambientale. E qui è rinata la nuova cantina, chiamata appunto Palmento Costanzo, basata su 12 ettari di vigneti distribuiti lungo il versante settentrionale del vulcano. Si tratta dei classici della zona, Nerello Mascalese e Nerello Cappuccio per i rossi, Carricante e Catarratto per i bianchi. 
Un passo indietro. La tradizione vinicola dell’Etna è pressoché millenaria, ma quella più recente risale all’Ottocento, quando molti contadini s’insediarono sul territorio e poi, durante il Regno d’Italia, nacque Passopisciaro. Il paese ebbe un notevole sviluppo agricolo grazie anche alla ferrovia Circumetnea (1895), che favorì l’esportazione di Nerello Mascalese come vino da taglio di vini francesi e anche di Chianti e Barolo.
Una vite coltivata ad alberello
etneo, sostenuta dal palo di castagno 
Ma come sono le vigne oggi al Palmento Costanzo? Sono solo le quattro citate, autoctone, coltivate ad alberello e c’è anche un vigneto a piede franco e cioè non innestato su barbatelle americane, come impose la fillossera fra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento. Come mai questo vigneto ha resistito alla fillossera? Perché i terreni vulcanici, abbastanza acidi, sovente non permettono alla fillossera di viverci. Si è constatato che un vigneto a piede franco e uno innestato differiscono grandemente per la longevità, quindi maggior concentrazione dei profumi nelle uve e in sostanza per una qualità migliore a favore delle viti prefillossera
Il paesaggio è davvero suggestivo, con un sottofondo inquietante: le viti ad alberello spuntano da centinaia di terrazzamenti dai suoli vulcanici di colore bruno, tra fiori di ginestra gialla, viole e altre erbe selvatiche. La coltivazione è biologica. In vendemmia si selezionano i grappoli in vigna, prima e poi ulteriormente in cantina con l’ausilio del nastro vibrante. Le uve appena raccolte (a mano, in piccole cassette) vengono pigiate al più presto e messe a fermentare nei tini, poi per caduta, senza macchinari, scendono nelle vasche d’acciaio; quindi il vino ridiscende ancora nella bottaia per la maturazione o l’affinamento. Nella cantina vi sono tonneau da 500 litri e botti più grandi, da 3mila e 5mila litri. In più, la curiosità enologica dei quattro Ovum, botti da 2mila litri la cui forma consente un bâtonnage (rimescolamento delle fecce fini con la massa del vino) per così dire spontaneo, grazie ai moti convettivi dei liquidi, determinati dalla forma ovale.  
Mofete Rosato
La produzione di quasi 100mila bottiglie è suddivisa in due linee, più una terza in fieri. Mofete è la linea più giovane di Etna Doc, dal sorso fresco, da vigneti relativamente giovani (arrivano fino a 30 anni, però). Comprende un Bianco, prevalentemente Catarratto, un Rosso da Nerello Mascalese in prevalenza e, sempre dal Mascalese al 100%, un Rosato dal colore tenue ma dal bouquet composito, sapido e ricco al palato, pieno e vellutato. La linea di Sei prende il nome dalla classificazione dell’Etna nella mappa scientifica dei vulcani attivi nel mondo, 6 appunto. Comprende un Bianco di Sei (Carricante 70%, Catarratto 30%) dai sentori di fiori bianchi ed erbe aromatiche per un gusto sapido e speziato; e un Rosso di Sei (Nerello Mascalese 80%, N. Cappuccio 20%) ricco, succoso e vellutato. 
L'Etna Contrada Santo Spirito, il vino
più prestigioso di Palmento Costanzo
Infine,  la nuova linea Contrade, una sorta di cru, una scelta delle migliori uve di una determinata zona. È appena uscito sul mercato il primo vino, il Contrada Santo Spirito Etna Rosso Doc 2015. Il vigneto relativo cresce su un terreno al 70% composto da sabbie vulcaniche e per il resto da sassi e rocce effusive (cioè prodotte dalla solidificazione della lava). Le viti si trovano sui terrazzamenti più elevati (700-800 metri), con una resa per ettaro di circa 40 q.li, quindi molto bassa. La buona escursione termica fra notte e giorno dona finezza al futuro vino, così come i terreni conferiscono alcuni sentori minerali. Dopo la macerazione sulle bucce il mosto fermenta negli Ovum e il vino continua ad affinarsi per un paio d’anni. 
Alla vista il Contrada Santo Spirito è di un bel rosso rubino con qualche nuances granata, mentre al naso prevale la ciliegia, seguita da note di agrumi e una sottile speziatura che rimanda alla noce moscata, nonché una sfumatura di pietra focaia. In bocca rivela subito un corpo robusto ma equilibrato, un austerità sia pure contenuta, tannini “galoppanti”, ma già dotati di morbidezza, bella persistenza finale, salina. 
Sia grazie a Dio. E allo Spirito Santo.
Info. Palmento Costanzo, Contrada Santo Spirito, Passopisciaro (Catania), tel. 0942.983239, www.palmentocostanzo.com. Qualche prezzo (a bottiglia). Vini della Linea Mofete, sui 14 €. Vini della Linea “di Sei”, sui 22-32 €.  Contrada Santo Spirito sui 40 € (in enoteca).

martedì 15 gennaio 2019

A Ca' di Rajo con la Bellussera "crescono" i grandi vini. E anche le insalate...Un Tai d'artista e un Manzoni dalle bollicine rosa

Veduta panoramica del vigneto coltivato a Bellussera, a San Polo di Piave

Ottantatré anni ma in tre. È l’età dei fratelli Cecchetto (Simone 33, Alessio 28 e Fabio 22), alla guida della Cantina Ca’ di Rajo di San Polo di Piave, nel Trevigiano. Non raggiunge neanche quella del nonno Marino, 87 anni, che ha cominciato a coltivare la vigna 8 decenni fa con la sua famiglia. E che oggi continua arzillo a partecipare alle vendemmie e a seminare insalata fra i ”filari” di uva Bellussera.  Alt. Insalate? Vitigno Bellussera? Ma di che stiamo parlando? 
Di una storia straordinaria, poco nota fuori dalla zona, che racconta non poco dell’ingegno veneto e dei viticoltori in particolare. Innanzitutto la Bellussera non è un vitigno, ma un metodo di allevamento della vite, inventato dai fratelli Bellussi sul finire dell’Ottocento, nel comune di Tezze di Piave. Il problema, allora, con i sesti d’impianto convenzionali, era di evitare l’attacco della peronospera, terribile malattia fungina, particolarmente temibile nelle terre del Piave, molte umide perché ricche di risorgive. La soluzione fu quella di innalzare i vigneti, o meglio i tralci vitati,  anche oltre i 2 metri d’altezza, evitando così l’umidità che si espandeva copiosa dal terreno. E proteggendoli, grazie alla maggiore ventilazione, da cali improvvisi della temperatura, dalle nebbie autunnali, dalla rugiada mattutina. La vendemmia (e la potatura) esclusivamente manuale, però, è un affare serio: bisogna usare delle piattaforme su ruote per elevarsi a circa 3 metri e arrivare ai grappoli in posizione non troppo scomoda. Inoltrarsi in una vigna a Bellussera è uno spettacolo: dapprima si scorgono degli alberelli che sorgono dal terreno e s’innalzano avvinghiati a un palo, con foglie e grappoli in alto, ben distanziati fra loro. E tra un tralcio e l’altro, in primavera, cespi di insalate, peperoni, pomodori. Poi ci si trova in un boschetto…rado, fatto di pali e alberelli con i grappoli su, verso il cielo. 
Ma ecco come funziona la faccenda. Tutto parte dai pali di legno di circa 4 metri, appoggiati ciascuno su una piattaforma, ma sostenuti da tiranti, le cui sommità sono unite da fili di ferro che, incrociandosi, formano una raggiera. Ogni palo sostiene a sua volta 4 viti. Visto dall’alto il vigneto assomiglia e uno spettacolare alveare, disposto geometricamente. Il sistema a Bellussera è ormai quasi scomparso, non essendo oggi più così necessario, dato che esistono ormai metodi più produttivi ed economici (forse) per combattere la peronospera e le altre malattie fungine. Quindi il
I fratelli Cecchetto, titolari di Ca' di Rajo.
mantenimento di questi particolari sesti d’impianto, ancorché costoso e complesso, assume un valore storico e culturale, oltre a funzionare comunque perfettamente.  
Il vigneto a Bellussera dei Cecchetto si estende su 15 ettari coltivati con le varietà Glera (quella che dà luogo al Prosecco), Raboso, Merlot, Chardonnay, Pinot bianco Sauvignon, Verduzzo, Marzemina bianca e Manzoni rosa (un autoctono piuttosto raro). 
Appartiene invece alla famiglia Paladin un eccezionale vigneto, sempre a Bellussera, di Tai (il vitigno che fino a una decina d’anni fa veniva chiamato Tocai), che si trova a un paio di km dalla sede di Ca' di Rajo. Il vigneto risale ai primi anni del Novecento, circa 100 anni di storia, che i Cecchetto, in accordo con i Paladin, hanno deciso di valorizzare con la produzione di un vino unico: si chiama Iconema ed è un Tai della Doc Piave in edizione limitatissima: della prima e unica annata, 2017, sono state prodotti 3.133 bottiglie e 100 magnum da collezione, tutti numerati. Le uve, raccolte a mano, come del resto obbliga la Bellussera, sono state adagiate per tre settimane su graticci ad appassire, in modo che il futuro vino acquisisse complessità ed eleganza. Fermentazione e maturazione in tini d’acciaio per 8 mesi a contatto coi lieviti e affinamento in bottiglia per altri 4. Il risultato? Il colore è dorato, brillante; ai profumi fruttati 
Iconema, Tai Piave
iniziali (pesca, albicocca) si uniscono lievi note speziate e minerali, che spaziano dallo zafferano alla pietra focaia. In bocca il Tai è sapido, strutturato, di buona persistenza aromatica, con un finale lungo e ricco. Abbinamento elettivo: con una Tartare di salmone, bufala e novelle di prato. Sul sito di Ca’ di Rajo il vino è in vendita a 24 € la bottiglia, in enoteca (a trovarlo) sui 30 €. Il Magnum, in cofanetti dipinti a mano da 20 artisti, sui 100 € in enoteca (73 € sul sito Internet). 
Anche il nome scelto per questo Tai d’eccezione, Iconema, merita qualche spiegazione. Secondo il geografo del paesaggio, viaggiatore e scrittore Eugenio Turri (1927-2005) gli iconemi sono unità elementari della percezione, che sommate con altri elementi, formano l’immagine di un luogo: paesaggio complessivo come sintesi di elementi, alcuni dei quali sono riferimenti primari, componenti imprescindibili di quel paese, dati che si memorizzano come fotografie e ai quali ricorriamo ogni volta che ripensiamo o parliamo di quel dato paesaggio. E in fondo quel Tai Piave, pur particolarissimo perché ricavato da una vigna coltivata a Bellussera, perché basato su uve parzialmente appassite, è un iconema, un particolare significativo che rimanda al paesaggio strano e maestoso dei vigneti a Bellussera, alla loro storia ultracentenaria, alla loro singolarità ed unicità.
La produzione di Ca’ di Rajo ovviamente non si limita all’Iconema. Si aggira attorno al milione di bottiglie, di cui la metà è Prosecco di Treviso e di Conegliano Valdobbiadene. Un altro milione di bottiglie è venduto sotto i brand Epsilon e Terre di Rai. I vigneti sono di proprietà o di conferitori convenzionati e, oltre che intorno al nucleo aziendale, si trovano anche in una zona friulana confinante col Veneto.
Ma ecco alcuni fra i vini più interessanti.
Marzemina bianca 2017 Versione spumantizzata di un autoctono, coltivato a Bellussera. Una rarità dalle origini antiche, che in Veneto veniva chiamata “champagna” per la sua freschezza e briosità. Insomma lo “Champagne” povero dei contadini, oggi tornato a nuova vita, con il particolare di una fermentazione unica (in autoclave), che parte non dal vino ma direttamente dal mosto: “Così riduciamo l’ossidazione nel tempo e i solfiti aggiunti”, spiega Simone Cecchetto, “e otteniamo un brut con 6 grammi di residuo zuccherino, dai profumi intensi,”. Ed effettivamente alle sfumature floreali di biancospino, si aggiungono quelle di pesca, agrumi e fieno, e una sapidità gioiosa e fresca, anche se non esuberante. Abbinamento elettivo: Trofie di semola, pesto al basilico e crema di patate. Circa 5.000 bottiglie, sui 10-12 € l’una.
Altro spumante da Bellussera è il Manzoni rosa 2018, anch’esso vitigno autoctono e raro, nella versione extradry. Per la cronaca, anzi per la storia, il vitigno nasce dalle sperimentazioni del
Manzoni rosa
professor Manzoni, che tentando di migliorare geneticamente le viti per renderle resistenti alle epidemie di fine Ottocento, fra l’altro incrociò Traminer e Trebbiano, ottenendo un vino rosato. Il suo colore è tenue, il perlage fine; note di frutti di bosco all'olfatto e, più lievi di rosa e agrumi; in bocca, asciutto ma vellutato, sapido. Abbinamento elettivo: Tartare di salmone, bufala e novelle di prato. Circa 21.000 bottiglie, sui 10-12 € l’una. 
Raboso Sangue del diavolo 2014 Il nome forse si riferisce alla natura “rabbiosa” del vitigno, non facile da vinificare smussandone le asperità senza svilirlo. Questo di Ca’ di Rajo è ricco di tannini e acidità, ma fresco, sapido e dotato di una morbidezza particolare, probabilmente frutto della surmaturazione in pianta e, per il 10%, dell’appassimento sui graticci per oltre un mese; nonché della complessa  maturazione di 24 mesi in botti grandi per le uve surmature e di 12 mesi in barrique per quelle passite. Abbinamenti: selvaggina di piuma, pasta e fagioli, oca ripiena,  abbacchio e patate al forno. Circa 13.000 bottiglie, sui 14 € l’una. 
Malanotte del Piave Docg, Notti di Luna Piena 2013 Uve Raboso del Piave a Bellussera, surmaturate in pianta per il 70% e per il resto appassite in fruttaio per 40 giorni; 36 mesi in botti da 12 hl per il vino da uve surmaturate in pianta, 24 mesi  in barrique per le passite; ulteriori 6 mesi in affinamento nel vetro. Profumi di marasca e mora selvatica, con accenni di cuoio e tabacco; Sapido, strutturato, tannini potenti ma abbastanza morbidi, di piena soddisfazione. Abbinamenti: Gulasch all’ungherese, cinghiale in salmì, formaggi duri invecchiati. Abbinamento elettivo: Cioccolato fondente, crumble all’olio e gelato al caffè. Circa 6.000 bottiglie, sui 25 € la bottiglia.
(Abbinamenti elettivi dello chef Elio Sironi, del ristorante Ceresio 7 di Milano).

La vendemmia
InfoCa’ di Rajo, via del Carmine 2/2, San Polo di Piave (Treviso), tel. 0422.855885,  www.cadirajo.it . Gli enoturisti possono partecipare a un wine tour alla scoperta degli allevamenti di viti a Bellussera. Il giro include la visita alla Chiesetta del Carmine, del Trecento, custodita all’interno della tenuta, alla Torre di Rai e la degustazione di almeno 4 vini (dal Prosecco alla Marzemina bianca, dal Sauvignon al Raboso). Il lunedì e il mercoledì dalle 15 alle 17,30. Prezzo: 10 € a persona. Solo su prenotazione: booking@cadirajo.it,  tel. 0422.855885. Pernottamenti. A Ca' di Rajo consigliano l'Agriturismo Due Carpini, a S. Stefano di Valdobbiadene (www.duecarpini.it ) e l'Hotel Villa del Poggio, a San Pietro di Feletto (www.cadelpoggio.it).