giovedì 30 giugno 2016

Vacanze enoiche / I vini autoctoni di Ischia e quelli eroici di Capri: da Giardini Arimei a Scala Fenicia

Vendemmia sospesa nelle vigne di Scala Fenicia, a Capri

Capri e Ischia sono le isole più famose del Golfo di Napoli. La prima è uno sperone roccioso a sud della città, distaccatosi in epoca preistorica dalla vicinissima Penisola Sorrentina. Ischia e la vicina Procida (per tradizione isola di marinai e naviganti), a ovest di Napoli, devono la loro genesi all'intensa attività vulcanica dei Campi Flegrei, a cui erano un tempo congiunte. Sono isole famose in tutto il mondo per le loro bellezze naturali, come i faraglioni di Capri e i panorami suggestivi. E vantano una tradizione antica anche nella produzione di vino.
Ma mentre Procida ha solo qualche vigna per una produzione locale, che eventualmente va sotto la Doc Campi Flegrei, Ischia, l’isola maggiore per estensione e produzione, annovera parecchie cantine. Le uve principali utilizzate sono Forastera e Biancolella per i vini bianchi, Guarnaccia e Piedirosso per i rossi. La Doc Ischia può riportare in etichetta i nomi dei singoli vitigni o meno, o anche qualificarsi semplicemente come Ischia Bianco o Ischia Rosso. Le vigne sono spesso in posizioni spettacolari, collocate su terrazzamenti dai caratteristici muri a secco, non facili da lavorare. Quest’anno alcune cantine isolane, da Pietratorcia a Casa d’Ambra, da Mazzella a Cenatiempo, da Muratori-Giardini Arimei a Tommasone sono state coinvolte in un progetto di recupero di storici vitigni autoctoni, con il sostegno di Giancarlo Carriero, proprietario de L’Albergo della Regina Isabella, del giornalista, scrittore e direttore scientifico di Vinitaly International Academy Ian D’Agata e del Dipartimento di Agraria dell’Università di Napoli. 
Sono stati individuati cinque vitigni che la cantina Antonio Mazzella ha vinificato in purezza. All’ultimo Vinitaly sono stati scelti tre vini dell’annata 2014, un bianco, il San Lunardo, un rosso, il Guarnaccia e un rosato, il Cannamela, presentati in un tasting esclusivo, che fa ben sperare per lo sviluppo futuro dell’enologia ischitana.
Ma ecco alcune delle migliori produzioni sulle due isole.
Casa D’Ambra a Forio d’Ischia (www.dambravini.com) è la più antica cantina dell’isola, fondata nel 1888 da Francesco D’Ambra e oggi guidata dal pronipote Andrea. I suoi sono vini del mare ma anche Pietratorcia (Forio d’Ischia, www.pietratorcia.it) si esprime al meglio con l’Ischia Rosso Tenuta Janno Piro e l’Ischia Bianco Superiore Tenuta Chignole.
di collina, visto che alcuni terrazzamenti sono posti anche a 600 metri d’altitudine. Eccellente il bianco Biancolella Tenuta Frassitelli, dal bouquet complesso, sapido e di buon corpo, come pure l’insolito Gocce D’Ambra passito. Fra i rossi, si distingue il Per’ ’e Palummo (in dialetto vuol dire zampa di colombo ed è poi il vitigno Piedirosso), snello e garbato, che si fa più compatto e complesso nelle riserve.

Il vino che non ti aspetti è invece prodotto da una cantina fondata di recente, la Giardini Arimei (Forio d’Ischia, www.arcipelagomuratori.it/giardini-arimei). In un’antica e preesistente tenuta del ’700 sono state recuperate e ricoltivate terrazze sostenute da muri a secco, con vigne native come Biancolella, Forastera, Uvarilla, Coglionara. La cantina, scavata in un masso di tufo verde, è stata ristrutturata e per la vinificazione si sono recuperati antichi palmenti, cioè vasche di pietra comunicanti. Solo due vini vi sono prodotti, il Pietra Brox, Ischia Bianco Doc, fresco, sapido, dai sentori di ginestra e mango; e l’eccezionale Giardini Arimei, da uve surmature raccolte in diversi periodi e lasciate macerare per tre stagioni. Il risultato finale? Un passito di vena amabile, sostenuta da una sapida acidità, che lo rende abbinabile sia a formaggi stagionati e fegato grasso sia a cioccolato fondente e pastiera, un dolce della tradizione napoletana.

A Capri, isola glamour per eccellenza, cinematografica e letteraria, sembra incredibile che, nonostante vanti l’esistenza di una Doc specifica, la coltura della vite non sia quasi più praticata. L’unico produttore che coltiva e imbottiglia sull’isola è Andrea Koch. Qualche anno fa lui e sua madre Pia Maria Rodriguez acquisirono una vecchia cantina e alcune vigne terrazzate, fondando la piccola azienda agricola Scala Fenicia (via Fenicia, www.scalafenicia.com ), nome che deriva dall’antica scalinata greco-romana, che collegava le località di Capri e Anacapri. Biancolella, Greco e Falanghina le uve coltivate da collaboratori locali, in promiscuo con gli agrumi e vinificate in una cantina ricavata all’interno di un’antica cisterna romana. Se ne ricavano poche migliaia di bottiglie “eroiche”, ma entusiasmanti: il Capri Scala Fenicia è fresco, sapido ed elegante, con gradevoli note agrumate e lontani, ma percettibili sentori di ginestra. Una vera chicca per intenditori e appassionati.

martedì 28 giugno 2016

Il miracolo di Christo e le anime di Villa: degustando bollicine di Diamant...



Camminare sulle acque non è facile. Però ci riuscirono Cristo (Gesù), Simon Pietro, Horus (altro dio ma della mitologia egizia), Orione, figlio di Poseidone (mitologia greca) e diversi personaggi della tradizione indù e buddista.  Ai tempi nostri, Christo (Vladimorov Yavachev), uno degli dei viventi della nostra epoca, in quanto artista “visionario” di fama mondiale, è riuscito a modo suo a far camminare migliaia di persone sulle acque del Lago d’Iseo, tramite l’installazione delle Floating Piers, le passerelle galleggianti arancion-cangianti, stese fra Sulzano (terraferma), l’isola di Monte Isola e l’isoletta di San Paolo (foto sopra) dominata dal villone dei Beretta, quelli della famosa pistola e di altri, ancor più letali, armamenti.
La bella (non)notizia è che fino al 5 luglio si può ancora andare a farsi qualche km sotto il sole o la pioggia, lungo le suggestive ancorché affollate passerelle. La brutta, che non è più possibile passarvi la notte, camminando o dormendoci in sacco a pelo, perché il Prefetto e (o?) gli organizzatori hanno decretato la chiusura notturna. Mettendo così in disperazione controllata chi aveva programmato, anche a scopo di lucro, visite al chiar di luna con corollario di cene, degustazioni, colazioni mattiniere e quant’altro, come, per esempio, la maison di spumanti pregiati La Montina, che aveva organizzato la serata-nottata del 29 alla modica cifra individuale di 250 euro.
Già, perché il Lago d’Iseo segna il confine meridionale di quella piccola zona lombarda chiamata Franciacorta, zona principe della spumantistica classica italiana. Il Franciacorta è lo spumante che ha forse in Italia, nell’ambito delle bollicine tradizionali il disciplinare più severo di produzione, e, nonostante i numeri non grandi del business (15 milioni e mezzo di bottiglie vendute nel 2014, il 9% all’estero), un prestigio nazionale e anche internazionale, indiscusso. Non che sia l’unico territorio di rilievo in Italia: lo è anche il più vasto Trentino e, in tono minore, anche l’Oltrepò pavese, più una serie di mini zone sparse qua e là per lo Stivale, soprattutto al Nord. Il piccolo distretto della Franciacorta (comunque 2800 ettari vitati, 109 cantine associate, 19 comuni) dà luogo a eccellenze produttive nelle varie tipologie bianco, Satèn, rosé e poi brut, extrabrut e pas dosé sul lato della secchezza, extra dry, sec (dry) e  demi-sec sul fronte della dolcezza.
Chiaro che il cuore del Franciacorta è il brut, declinato come versione classica, millesimato e riserva (gli ultimi due, frutto della vendemmia di un solo anno). Ma piano piano si fa largo anche la tipologia più difficile per il largo consumo, finora “riservata” a relativamente pochi “intenditori” o appassionati: quella del pas dosé (detta anche dosage zero, brut nature), che si identifica con uno spumante assolutamente secco, perché rabboccato alla fine del lungo procedimento di presa di spuma non con la
 cosiddetta liqueur d’expédition (miscela di vino, alcol e zucchero) ma con il medesimo vino della bottiglia, nature.
A pensarci bene è lo spumante metodo classico più autentico, più naturale, anche se la tradizione del brut (più o meno secco, mai secchissimo) è lunga.
Tanto più interessante quindi è risultata la degustazione organizzata dal franciacortino Villa, che ha dato poi il la, nel pomeriggio, alla camminata sulle acque, una volta levatisi al cielo i fumi alcolici del tasting.
Protagoniste, nella località di Monticelli Brusati - dove ha la sua sede, la cantina-agriturismo Villa Franciacorta (con belle camere in un borgo antico del ‘600, sparso fra le vigne, con piscina) - dieci annate di Diamant Pas dosé millesimato, uno degli spumanti di punta fra le 300mila bottiglie vendute ogni anno. Veramente d’élite, la produzione del Diamant, che partita col millesimo 1999 (sotto il nome di Cuvette Pas dosé) con 2mila pezzi, sfiora i 10mila solo con l’ultima annata, la 2010. Già, perché l’affinamento sui lieviti dura almeno quattro anni. La cuvée del Diamant è composta per l’85% da chardonnay e per il 15% da uve pinot nero, con una metodologia di coltivazione che si sta approssimando a quella biologica. I suoli, collinari, sono argillosi, marnosi e ricchi di fossili marini. Il vino è sottoposto anche a un passaggio in barrique prima della presa di spuma. Insomma, tutto concorre a un risultato importante al termine della lunga maturazione nelle labirintiche cantine di Villa, scavate nel ventre della collina Madonna della Rosa.
Si sono degustate dunque le annate dal 1999 al 2003 e poi dal 2005 al 2008 e la 2010. Ne mancavano quindi due (2004 e 2009) per la sequenza completa, irrealizzate perché ritenute qualitativamente non all’altezza. Indice anche questo di serietà produttiva.
È bene non farsi stupire troppo, nel mondo dello spumante classico e dello Champagne dall’anzianità della data di vendemmia. Quello che conta è semmai la data della sboccatura, quando i lieviti esausti vengono espulsi avendo esaurito il loro compito e ogni bottiglia viene riabboccata con la liqueur d’expédition o con vino dello stessa vendemmia (nel caso dei Pas dosé). 
Anche così i campioni degustati (da bottiglie assolutamente normali e non preparate apposta per l’occasione) erano belli vecchiotti, per essere delle bollicine…Il 1999, ad esempio, è stato degorgiato nel 2003 e dunque si era in presenza di uno spumante di ben 13 anni. A mano a mano che l’annata era più giovane, la data di sboccatura era stata posticipata. Dal 2003, a 5 anni di permanenza sui lieviti, per il 2007 e 2008, a 7 anni, mentre la 2010 ha fatto 6 anni.
I degustatori (giornalisti del settore, soprattutto), dopo aver discusso le sensazioni provate con i titolari dell’azienda Villa, Alessandro Bianchi, la figlia Roberta e suo marito Paolo Pizziol (foto sotto), e con Andrea Galanti, miglior sommelier 2015, hanno anche assegnato dei voti (in centesimi) ai campioni. Ne è uscita una classifica informale, che vale però la pena di riportare, almeno per le prime posizioni.
1a l’annata 2000 (allora il Pas dosé era dell’etichetta Cuvette, solo in seguito è stato riservato all’etichetta Diamant). In vigna, annata giudicata eccezionale per la perfetta maturazione delle uve, con gradazione oltre la media, ma con giusta acidità. Al naso: floreale spinto, frutta secca, spezie delicate ma pungenti, finale salmastro. In bocca: cremoso e setoso, sapido, con sentori di frutta sciroppata, agrumi, mela cotta, panettone. Media voti degustatori: 90,43. Il mio voto: 93.
2a l’annata 2006. Estate calda e asciutta, ma poi piogge nella giusta misura per raccogliere uve perfette dal punto di vista sanitario, con giusto contenuto di zuccheri e acidità adeguata per ottenere una bella concentrazione di componenti aromatiche. Al naso: floreale, con aromi di macchia mediterranea, gelsomino, minerale delicato (pietra focaia). In bocca: scorrevole, agrumato, sentori di nocciola, in evoluzione. Media voti degustatori: 89,79. Il mio voto: 90.
3a l’annata 2008. Anche questa un’ottima vendemmia, nonostante la primavera piovosa e le basse temperature. Una delle migliori per gli spumanti di Franciacorta. Naso: fruttato, in evidenza gli agrumi, poi fiori bianchi delicati, ancora, pietra bagnata, crosta di pane, vaniglia. In bocca: irruente, sapido, dona salivazione quasi pungente, poi sentori verdi, basilico, mentuccia.
Media voti degustatori: 89,36. Il mio voto: 90.
Meritava di più, secondo me, il 2007: buona annata, ma raccolta anticipata, per l’impennata delle temperature in luglio. Poi sette anni sui lieviti. Un perlage luminoso, profumi di frutta candita, vaniglia, con note di agrumi e di fiori delicati, con un finale sommessamente minerale. In bocca, cremosa, sapida, ampia, lunga; lievemente acidula con promessa di evoluzione nel tempo.
Le anime di Villa in controluce...
Il mio voto: 92.
Conclusione. I buoni vini (allevati e seguiti con cura maniacale) invecchiano bene, ma anche quelli ritenuti giovani, possono esprimere non solo grandi potenzialità, ma realtà già accattivanti. 

Monticelli e nuvole: W Villa!
PS. Fonti: Messico e nuvole, cantata da Enzo Jannacci, 1970; W Villa!, film messicano di Jack Conway, 1934; Monticelli, parte del nome del comune di Monticelli Brusati.

Info. Villa Franciacorta, via Villa 12, fraz. Villa, Monticelli Brusati (Brescia), tel. 030.652329, www.villafranciacorta.it.

martedì 7 giugno 2016

Chance vegetariana al Museo delle culture: show cooking dibattiti e concorso nel ristorante di Enrico Bartolini


Pietro Leeman e Gabriele Eschenazi, promotori di The Vegetarian Chance, nella sede
della nuova Joia Academy di via Casati, a Milano

E adesso i vegetariani se ne vanno al museo. Qualcuno, forse, vorrebbe tenerceli. Invece, da lì, dal Mudec, intendono poi ripartire più verdi e più forti che pria…Il Mudec, Museo delle culture di Milano, apre i battenti, l’11 e 12 giugno (sabato e domenica), a The Vegetarian Chance, la manifestazione creata dallo chef Pietro Leeman (del Joia di Milano, 1 stella Michelin) e dal giornalista Gabriele Eschenazi. In alcuni ambienti del museo si terranno dibattiti, show cooking, seminari, proiezione di documentari. Nelle sale del Mudec Restaurant, dello stellato Enrico Bartolini, la domenica, il Concorso internazionale.
“Con questo evento”, raccontano Eschenazi e Leeman, “intendiamo promuovere la cucina vegetariana nell’ottica di una condivisione di gusti, valori, consapevolezza. Guardiamo al mondo vegetale non come oggetto di sfruttamento indiscriminato, ma come alleato per il nostro benessere, per una rivoluzione nel nostro stile di vita. Nei primi due anni della nostra esistenza non abbiamo inseguito una moda né intrapreso ‘guerre di religione’, ma abbiamo fatto una proposta concreta: portare il vegetarianismo nei ristoranti di alta cucina in primis, ma anche negli altri, e quindi offrire agli ospiti la possibilità di scegliere cosa ricevere nel piatto. Da qui l’idea del concorso internazionale”. 
Quest’ultimo si svolgerà domenica 12 (dalle 11,30 alle 14, aperto solo alla stampa e addetti ai lavori) nelle cucine e nelle sale del Mudec Restaurant, aperto da pochi mesi dallo chef Enrico Bartolini (già bistellato Michelin con il locale del Devero Hotel).  I concorrenti sono otto fra cuochi e chef: si va dal giapponese Masayuki Okuda all’olandese Lennart van Weert, da Andrea Ferrucci di Montà d’Alba a Gianfranco Ceccato di Bellinzona e ancora, Fabio Vacca dalla Sardegna, Sabina Joksimovic del Venissa di Mazzorbo -Venezia, Tommaso Segato, Antonio Zaccardi.
Ogni cuoco presenterà due piatti, dei quali uno interamente vegano e l'altro vegetariano, per il quale quindi è consentito quindi l’uso di latticini. La giuria, presieduta da Pietro Leemann, sarà composta da Enrico Bartolini, dallo chef israeliano Moshe Basson, dalla nutrizionista Michela De Petris, dal giornalista Davide Paolini, dalla cuoca ayurvedica Marisa Scotto e dal biologo Carlo Modonesi.
Moshe Basson
Premiazione pubblica alle 16 in una sala del museo. Alle 17, lo show cooking Prima della fame, tenuto da Moshe Basson, personaggio straordinario che nel suo locale di Gerusalemme, L’Eucalipto, propone una cucina vegana basata sugli ingredienti menzionati nella Bibbia ebraica e raccolti sulle colline vicine.
Sabato e domenica altri show cooking, a cura di Vittorio Castellani, aka Chef Kumalè. Sabato, Simone Salvini, con Riso e lenticchie alla mediterranea (h 11,30); Jenny Sugar, con Dolci vegan integrali nel mondo (h 13,30); Agnese ‘Z Graggen con Gioielli per una notte, esibizione artistica veg (h 14,45). Domenica, dalle 11.30 alle13.00, Chocoexperience - seminario sull’assaggio del cioccolato, a cura dell’Istituto Internazionale Chocolier; alle 14.30, Vittorio Castellani con: World Roots, il giro del mondo in salad bowl.
Ancora da segnalare, l’interessante tavola rotonda condotta da Gabriele Eschenazi alle 16 di sabato nell’Auditorium sul tema: Vegetarianismo: ritorno alle origini delle civiltà o sguardo al futuro? Partecipano: Remo Egardi, biologo, Giulia Innocenzi, giornalista e conduttrice tv, Paola Maugeri giornalista e conduttrice tv, Pietro Leemann. Imperdibili, secondo il parere di chi li ha visti, due straordinari documentari di Yann Arthus Bertrand. Sabato 11 giugno nell’Auditorium, ore 18.00, A Thirsty World; ore 20.30, Terra. Nel primo si affronta il tema dell’accesso all’acqua potabile, risorsa sempre più preziosa a causa dei cambiamenti climatici e dello spreco nelle società industrializzate; il secondo è un saggio letterario sulla specie umana e le sue relazioni sempre più alienate con gli altri esseri viventi. 
Fra i partner della manifestazione, la Cantina Tollo, abruzzese, con i suoi vini biologici. Ma a chi scrive piace citare (e bere!) anche un altro vino di Tollo, non bio, ma straordinario: il rosato, anzi il Cerasuolo Hedòs.

venerdì 3 giugno 2016

20 anni di cucina "di montagna" al St. Hubertus: quando la creatività è figlia di NN (Norbert Niederkofler)


Norbert Niedekofler e la sua brigata di cucina (Foto di Daniel Töchterle)


Vent’anni fa un cuoco giovane, felice e semisconosciuto iniziava un’avventura professionale in montagna. Era il 1996 e l’allora 35enne Norbert Niederkofler diventava chef di un albergo già noto, il Rosa Alpina di San Cassiano (Bolzano), dotato di una magnifica…pizzeria. Ma non era per sfornare margherite e calzoni che Paul e suo figlio Hugo Pizzinini l’avevano strappato al Castel Colz di La Villa. Norbert, dopo la scuola alberghiera in Germania, aveva già lavorato nelle cucine di rinomati locali di Londra, Zurigo, Milano, Monaco e New York. Ma aveva voglia di applicare i molti insegnamenti ricevuti e la sua creatività in espansione alla cucina montana, da cui avrebbe tratto una filosofia cucinaria, che lui chiama: Cook the Mountain. Detto fatto? Non proprio. 
Risotto al pino mugo con petto
di faraona affumicato
C’era da trasformare la pizzeria in un locale adeguato alle ambizioni, elegante, che facesse da degna cornice ai progetti di Norbert, sostenuti e voluti dai Pizzinini. E questo fu fatto. Seguì poi la battaglia quotidiana per conquistare pubblico e critica: piatti creativi, che in realtà affondavano le loro radici in antiche ricette, valorizzando in toto i prodotti della montagna, dai più semplici ai più inusuali. Basta scorrere un libro fondamentale di Norbert, St. Hubertus e i sapori delle Dolomiti, uscito nel 2006 per le edizioni Gribaudo, per rendersene conto.
Il salmerino cotto sui fiori di camonilla, con crema di ortiche e olio di carota; la trota cotta al vapore di un infuso d’erbe di montagna; lo stinco di vitello (un classico altoatesino) che finisce su un letto di delicata crema d’aglio, ma accompagnato da un astice con erbe aromatiche; la spalla di capriolo, in simbiosi con cavolo rosso, spatzle e kumquat canditi. E si potrebbe continuare. Ogni anno, dei piatti nuovi, per vent’anni. E intanto arrivavano le stelle Michelin, nel 2000 la prima, nel 2007 la seconda.
Cenare al St. Hubertus è sempre un’esperienza indimenticabile. Certo bisogna mettere in bilancio un conto che parte all’incirca dai 95 € e può approdare sui 190 €, secondo i piatti o i menu scelti. Addirittura 200 € costa il menu dei vent’anni. Ma può valerne davvero la pena.
Fino al 20 giugno, per festeggiare appunto i vent’anni del St. Hubertus e della cucina di Norbert Niederkofler, è possibile provare in una sola sequenza, con un menu speciale, i piatti del ventennio, uno
Enrosadira
per ogni anno. 20 piatti iconici, lo si può ben dire, per ripercorrere in un'unica cena la filosofia di Norbert, del Cook the Mountain, cucinare la montagna. E, filosofeggiando, godere.
Quali sono i piatti di questo menu irripetibile? Si va dai Tagliolini con rapa bianca, tartufo nero di Norcia e rucola del 1996 al Salmerino & cavoli del 2016, passando dal Filetto di bue e sedano rapa in crosta di sale e fieno, dal Risotto con wasabi e anguilla affumicata, dal Vitello tonnato St. Hubertus. E, ancora, Carpaccio di scampi con vinaigrette di finocchio e melone, Tortellini ripieni con zabaione di porcini e olio di abete, fino al dolce Enrosadira (nome del fenomeno naturale che all’alba e al tramonto colora di rosa le Dolomiti).
Che dire di più? In ladino, Bon apetito
Info. Ristorante St. Hubertus, c/o Hotel Rosa Alpina, strada Micurà de Rue 24, San Cassiano (Alta Badia, Bolzano), tel. 0471.849500; www.rosalpina.it/it/ristorante-stellato-michelin.htm. Chiuso martedì, aperto solo la sera.

Una ricetta di Norbert Niederkofler per i 20 anni del St. Hubertus:


SOLO POMODORO (2006)
Ingredienti per 4 persone
Per la bruschetta
1 peperone giallo, 1 peperone rosso, 1 gambo di sedano, 2 pomodori cuore di bue da 100 gr, 
30 gr olive taggiasche, 150 gr di pane toscano, 50 gr acciughe sott’olio
Per il pesto
50 gr basilico, 5 gr pinoli, 2 dl di olio extravergine di oliva, 5 gr capperi dissalati
Per il Guacamole
2 avocado, 1 lime, peperoncino, 2 fette di pancarrè, 50 gr di burro chiarificato, 
60 gr di buratta, 150 gr di pomodori San Marzano, 5 gr zenzero fresco, 1 spicchio d’aglio,
5 chips di pomodoro per decorare
Per la zuppetta
200 gr di pomodorini ciliegia, 1 dl di latte fresco intero, 100 gr di panna, 1 uovo, 1 cl di Kirsch, 
60 gr di Parmigiano, 50 gr anguria
Per l’insalata
10 pomodori datterino, 1 cipollotto fresco, 5 mandorle fresche

Preparate la bruschetta. Pestare in un mortaio gli ingredienti per il pesto e conservare in frigorifero. Tagliare il pane toscano a fette di 1 cm, tostarlo leggermente e rifilare le fette ottenendo dei rettangoli di 2 cm per 5. Tritare finemente olive, acciughe e capperi; aggiungere l’olio di oliva e spalmare tutto sulle 4 fette di pane. Pelare il sedano e i peperoni, tagliarli in brunoise (cubetti molto piccoli) e saltarli brevemente. Pelare i cuore di bue, togliere i semi e tagliarli delle stesse dimensioni del pane. Fare una striscia di pesto sul piatto, posarvi il pane, sopra il pomodoro e terminare con la brunoise.
Preparate il Guacamole. Sbollentare i pomodori San Marzano, pelarli, togliere i semi e farne una brunoise. Posizionarli in una teglia bassa, aggiungervi olio d’oliva, zenzero grattugiato e aglio e cuocerli in forno a 120°C per 1 ora e mezza.
Tagliare il pancarré a 3 mm di spessore e, con un coppa pasta, ricavarne dei cerchi di 3 cm di diametro. Spennellare con burro fuso e cuocere in forno a 140°C per 16 minuti. Schiacciare la polpa dell’avocado con una forchetta e aggiungere il succo di lime, sale e peperoncino. Mettere un cucchiaio di Guacamole sul piatto, sopra il cerchio di pancarré e i pomodori San Marzano. Terminare con una quenelle di burrata e le chips di pomodoro.
Preparate la zuppetta. Far bollire il latte e la panna, lasciare intiepidire e aggiungere l’uovo sbattendo con la frusta. Riportare alla temperatura di 80°C, aggiungere il sale, lo zucchero, il Parmigiano e il Kirsch, versare in un boccale di pacojet (pacojet è un sistema brevettato e prodotto dall'omonima ditta svizzera: un particolare frullatore che permette di ottenere una purea fine alla temperatura di un normale gelato, partendo da ingredienti congelati, ndr) e congelare. Al momento di servire passare al pacojet.
Frullare i pomodorini con sale, pepe e zucchero, passare al colino chinois e aggiungervi l’anguria tagliata a dadini. Versare la zuppetta in un piccolo bicchiere e posarvi in superficie una quenelle di gelato al parmigiano.
Preparate l’insalata. Tagliare i pomodori datterino in quattro, aggiungervi le mandorle tagliate a spicchi e il cipollotto tagliato molto finemente. Marinare tutto con olio di oliva e sale.

Componete infine il piatto. Per presentarlo al meglio, sarebbe ideale utilizzare un piatto rettangolare. Posare la bruschetta sulla sinistra, come indicato nella ricetta. Al centro il Guacamole e, sulla sinistra, comporre l’insalata utilizzando gli ingredienti indicati. Servire a parte la zuppetta.