mercoledì 26 ottobre 2022

Come pranzare in un ristorante stellato, spendere poco, mangiare e bere bene, uscire felici: il Gardenia di Caluso, re del Canavesano

 

Zabajone al Caluso Passito, magnifico dessert del ristorante Gardenia, parte dei "piccoli menu".



Testo di Bruno Boveri* e Gian Luca Moncalvi


Alla Carta: antipasto, primo, secondo e dessert, prezzo massimo 110 €;  prezzo minimo: 78 €.

Menu Territorio (sempre 4 piatti, a scelta tra due o tre proposte per ogni sezione): 78 €.

Menu Essenze e Consistenze (4 antipasti, 2 primi, un piatto vegetale, un piatto di carne  - Piccione alla brace di vigna, erbe amare, ribes nero -  e due dessert): 120 €.

Sono prezzi da stellato Michelin. E infatti il Gardenia di Caluso (nel Canavese), ha una stella della prestigiosa (quanto a volte discutibile, ma non è qui il caso) guida di origine francese. E pure la stella verde “Gastronomia e sostenibilità”, accanto alla quale viene riportato il credo della chef-patronne Mariangela Susigan (foto a fianco): "Da oltre 20 anni siamo appassionati produttori: è il nostro orto che detta le ricette proposte nel menu. Le erbe selvatiche sono il fulcro della nostra cucina; la loro raccolta si trasforma in momento d’introspezione da cui scaturiscono idee creative. Il rispetto per il mondo vegetale è alla base della mia filosofia culinaria". Il fulcro, ma non certo l'esclusiva, dato che carne, pesce e quant'altro vengono proposti con un occhio alla tradizione e uno alla creatività.

Ma si può andare a mangiare in uno stellato e spendere meno del minimo sopra riportato? Il trucco c’è e lo suggeriscono per fortuna gli stessi proprietari con la proposta di tre “piccoli” menu, che però si possono ordinare solo il lunedì, il giovedì e il venerdì a pranzo (martedì e mercoledì il locale è chiuso). Il prezzo? Solo 35 € per il Menu Classico e il Menu Tradizione, 40 € per il Gourmet. Ne vale la pena? Sì, e ne abbiamo avuto una bella e buona conferma, pochi giorni fa, a un tavolo dell’elegante, ma non pretenziosa sala della confortevole casa ottocentesca ove ha sede il ristorante, circondato dal verde di orti e giardini.

In due abbiamo voluto provare il Menu Tradizione, caratterizzato dal fritto misto alla piemontese, mentre il terzo commensale ha preferito il Menu Classico.  I piatti sono stati preceduti da tre imprevisti amouse-gueule (antipastini) veramente stuzzicanti: Gauffre di farina di castagne, zabaglione di larice e pesto di crescione; Gemma di peperone alla santoreggia (servita nel cucchiaio); Tartelletta con ricotta fumé e caviale di salmerino (foto qui sopra ).

Nell’offerta, anche un calice di vino (rosso, bianco o spumante). Noi abbiamo scelto, tra i vini delle Cantine Crosio, che appartengono alla stessa famiglia proprietaria del locale (se ne occupa il figlio Roberto Crosio, foto qui sotto), l’affascinante Incanto, un’Erbaluce metodo classico, dosage zero, con 36 mesi di permanenza sui lieviti; e il

Nebbiolo del Canavese Gemini, maturato un anno in botte e affinato sei mesi in bottiglia, elegante e di gran carattere. 
Compresi nel prezzo, anche acqua, dessert e caffè.

Il Menu Classico contemplava Cruda di Fassona, boccioli all’agro e misticanza selvatica con maionese di Artemisia (foto sotto a destra)antipasto cui è seguito il primo di Ravioli di coniglio e dente di leone, limone salato, ricotta al fieno fumé, piatti eccellenti al palato femminile di chi li ha provati.

Il Menu Tradizione prevedeva invece “solo” il piatto forte, cioè il Fritto misto della nostra tradizione (foto sotto a sinistra), che è  quella piemontese o italiana tout court, anche se poi la consuetudine mette in rilievo altri fritti regionali, come quelli alla bolognese e alla fiorentina, alla romana e alla napoletana. E proprio per quel piatto particolare, due commensali erano venuti al Gardenia. Non sono rimasti delusi! 

I cibi salati e "dolci" fritti, anziché essere proposti tutti insieme, sono stati opportunamente divisi in due portate: appunto quella salata prima e quella “dolce” dopo, quasi una sorta di dessert.

Primo servizio, dunque: cervella e filone di vitello Sanato, costoletta d’agnello, salsiccia e zampetto, cavolfiore romanesco, carciofo, zucchina e melanzana; secondo servizio, semolino, amaretti, pesca, mela Golden, pera Martin sec.

Tutti gli ingredienti, tagliati a tocchetti, erano stati primi sbollentati o bolliti, poi passati nella farina di semola rimacinata, uovo sbattuto e pangrattato e quindi fritti in olio di girasole a 170°.

Frittura soave, per nulla pesante, gustosa, varia e di gran soddisfazione.

E, ancora, i dessert: noi abbiamo scelto due diverse Variazioni di sorbetti e frutta di stagione (Verbena,

meringa e frutti di bosco, e Mango, mela, meringa e frutti di bosco), nonché l’eccellentissimo Zabajone - non al Marsala o al Moscatoma alla gloria del Canavese, il Passito di Caluso (da uve Erbaluce) - torcetti e nocciolini di Chivasso. 

E se 35 euro vi sembrano tanti, provate voi a mangiare così bene spendendo di meno!

 

INFORistorante Gardenia, corso Torino 9, Caluso (Torino), tel. 011.9832249, www.gardeniacaluso.com 

Cantine Crosio, Az. vitivinicola Roberto Crosio, Strada statale 26 per Ivrea, Candia Canavese (Torino); tel.: 339.8636004, 011.9836048;  www.cantinecrosio.it .


* Già Governatore di Slow Food

 

 

lunedì 10 ottobre 2022

Vini d'Autunno / Da Vittoria nel Ragusano al vulcanico Etna, ai Colli Orientali del Friuli: bianchi, rossi e bollicine d'eccellenza, anche con 4/4 di nobiltà

Le vigne della Barone Beneventano in contrada San Giovannello/Salto del Corvo di Viagrande, sull'Etna. Sullo sfondo,
il Monte Ilice, un cono di vulcano inattivo. Le uve coltivate sono il Nerello Mascalese e il Nerello Cappuccio.

Un rosso da bere con piacere sul pesce? La saggezza marinara (e contadina) lo contemplava e, seppure non molti, ci sono anche oggi vini dal bel colore rubino, adatti  alla bisogna o addirittura consigliati allo scopo.

Felice esempio ne è il Rina Russa, Frappato di Vittoria in purezza. Lo produce la cantina Santa Tresa, dei fratelli Stefano e Marina Girelli, già segnalata per il suo notevole Rosa, anch’esso da uve Frappato (e Nero d’Avola), ma appunto rosé (vedere il post del 9/7/2020, Rosa è una rosa è una rosa...). 

Sabbia rossa, significa Rina Russa in dialetto siciliano, con riferimento al colore rossiccio dei terreni sabbiosi (poveri di argilla e ricchi di minerali almeno in superficie; più sotto, si fanno rocciosi e ancor più giù argillosi) di Santa Tresa, 50 ettari nel comune di Vittoria, nel Ragusano. L’uva Frappato (da antichi cloni aziendali), raccolta a mano verso fine settembre in cassette, trascorre la prima notte in celle frigo che abbassano la sua temperatura a circa 7°, poi viene diraspata e pigiata. Fermentazione quindi a temperatura controllata, intorno ai 20°, per una decina di giorni, per poi proseguire con la malolattica. 
Il vino così ammorbidito riposa in serbatoi d’acciaio per 4-6 mesi, con frequenti rimontaggi e conseguenti movimentazioni delle fecce nobili, poi viene imbottigliato e dopo qualche settimana è pronto per la vendita. 
Di color rosso rubino, al naso presenta inconfondibili sentori di piccoli frutti rossi, fra i quali spicca la fragolina di bosco. In bocca risulta fresco, sapido, con tannini fini e abbastanza morbidi, rotondo. A che temperatura proporlo? Dipende. Se abbinato a piatti di carne, sui 17-18°. Ma nella zona di Vittoria viene servito volentieri sul pesce e allora la temperatura va abbassata financo ai 14°. 

Fa matrimonio d’amore con gli involtini di sarde a beccafico, con un ripieno di uvetta, pinoli e pangrattato, piatto popolare che voleva imitare l'uccellino, detto beccafico perché si nutriva di quei frutti, poi cucinato e apprezzatissimo dalla nobiltà ottocentesca.

Rina Russa, Terre Siciliane Frappato Igp 2021 (50.000 bottiglie, 12 €).

Abbinamento elettivo: Involtini di sarde a beccafico. 

Altri golosi abbinamenti: Zuppa di pesce, Filetto di tonno in crosta di pistacchi, Pesce spada arrostito.

INFO. Santa Tresa, contrada Santa Teresa, Vittoria (Ragusa), tel. 0932.1846555, www.santatresa.com .

 

Dalla piana ragusana alle contrade vulcaniche del Mongibello: un paio d’ore d’auto per 110 km e tutto cambia. Siamo appunto sull’Etna, comune di Viagrande: nella contrada Salto del Corvo/San Giovannello, a 650 m. slm., là dove s’incrociano gli adiacenti comuni di Trecastagni e Zafferana Etnea, c’è un piccolo appezzamento, una sorta di clos (come lo definirebbero in Francia, terreno chiuso da muretti) a terrazze, percorso da rasole (le antiche stradine) in pietra lavica. 

Il vigneto è circondato dai monti Ilice e Gorna, due coni di vulcano inattivi, e si apre sullo Ionio con vista magnifica, avendo come riferimento la barocca Acireale, qualche km più in basso. Non lontano, in pieno Parco dell’Etna e a 800 m. slm, nel comune di Tre Castagni, un altro vigneto in forte pendenza, difficile da lavorare, sempre sorvegliato a distanza dall’Ilice e dal Gorna in un paesaggio d’incanto. In loco anche un palmento del 18° secolo, sulla via del recupero onde riportarlo alle antiche funzioni. 
Queste due piccole proprietà sono da qualche anno passate alla famiglia di radici siciliane dei Beneventano della Corte, distributori di vini, Champagne e distillati di qualità con la loro società milanese Steinbrüch Italia. Roberto Beneventano e il figlio 36enne Pierluca (foto a destra) sono tornati alle origini acquistando questi vigneti e facendoli rivivere con il “marchio” di famiglia, Barone Beneventano della Corte, appunto. Perché baroni, i Beneventano lo sono davvero, almeno da quando al trisavolo Giuseppe Luigi (1840-1934,  foto qui sotto a sx)) venne riconfermato l'antico titolo nobiliare "della Girte" (cinquecentesco) dal re d’Italia Vittorio Emanuele III. Personaggio straordinario, Giuseppe Luigi fu prima deputato e poi senatore a vita, pur avendo votato, fra i pochi del Partito liberale, contro la Legge Acerbo del 1923, che favorì con un esagerato premio di maggioranza elettorale l’ascesa del fascismo al potere. 

Giuseppe Luigi sostenne con generosità, al contrario della maggior parte dei possidenti siciliani, le sue

maestranze contadine e operaie, nonché, da sindaco di Lentini, la realizzazione di importanti opere pubbliche.
Tornando ai giorni nostri, i terreni della proprietà sono di matrice vulcanico-sabbiosa, molto drenanti, il che aiuta a evitare la proliferazione di peronospora e oidio. Per cui, come racconta Pierluca Beneventano “facciamo solo tre trattamenti all’anno in regime biologico, in via di certificazione”. Le vigne sono tutte ad alberello (4 ettari coltivati attualmente, su un totale di 10, gli altri in fase di reimpianto), con pali di sostegno in castagno. Il lavoro è completamente manuale e la produzione (annata 2018, attualmente in commercio) è stata di 6500 bottiglie della Doc Etna, fra Rosso, Bianco e Rosato.

L’Etna Rosso 2018 (2.700 bottiglie, 22 € in cantina e sullo shop del sito, sui 25-30 € in enoteca) deriva da uve Nerello Mascalese (80%) e Nerello Cappuccio (20%), il cui mosto è stato vinificato e poi è maturato per un anno in grandi tini inox da 10-20 hl. 
Dai 2mila litri di vino in acciaio, ne sono stati poi estratti 1450 (dunque circa ¾), che sono finiti in legni relativamente “vecchi” per un altro anno: 2 tonneau da 500 lt di castagno (1000 litri) e in 2 barrique di rovere francese da 225 lt l’una, gli ultimi 500 litri. Dopo di che i vini nel legno sono tornati a riunirsi per alcuni mesi a quanto era rimasto in acciaio e quindi si è proceduto all’imbottigliamento. Il vino si è affinato ulteriormente nel vetro per almeno 6 mesi.

Alla vista L’Etna Rosso 2018 si presenta di colore rubino scarico. Leggeri profumi di piccola frutta rossa con tratti minerali vulcanici, cui si aggiungono sentori speziati e di sottobosco. In bocca, vena sapida, tannini ben integrati, fragrante, setoso e persistente, ricco di personalità, con sensazioni gustative coerenti con le olfattive. Finale lungo. 

Abbinamento elettivo: Filetto di maiale nero dei Nebrodi con riduzione di mosto cotto e castagne. 

Altri golosi abbinamenti: Peperoni abbottonati (ripieni alla siciliana), Pasta alla Norma, Coda alla vaccinara, Petto d’anatra al finocchietto.


Etna Bianco 2018 (2.450 bottiglie, 22 € in cantinasullo shop del sito, sui 25-30 € in enoteca).

Da uve Carricante (60%), Catarratto (30%) e Minnella (10%, vitigno tipicissimo dell’Etna), viti di 30-40 anni coltivate nelle contrade di Salto del Corvo e Carpenere, laddove venti montani e marini s’incontrano, influenzando, con l’escursione termica, gli aromi. Il vino bianco trascorre un anno nei tini d’acciaio, dopo di che viene imbottigliato e rimane da 6 mesi in su ad affinarsi nel vetro.
Alla vista è di un bel giallo paglierino carico, tendente al dorato. Al naso, profumi floreali (magnolia, glicine) e fruttati (mela, passion fruit). In bocca, secco, sapido con note agrumate e di erbe aromatiche; finale saporito e persistente.

Abbinamento elettivo: Pasta con le sarde (con mollica tostata e finocchietto selvatico). 

Altri golosi abbinamenti: Crudo di ricciola con salsa di mango e lime, Risotto ai frutti di mare, Gamberoni con salsa all’arancia, Frittura di totani e calamari.

INFO. Barone Beneventano, via Salto del Corvo 62, Viagrande (Catania), tel. 327.7336548, www.baronebeneventano.com , https://steinbruck.it .

 






Dall’estremo Sud all’estremo Nord. 

A 2 passi dal fiume Piave, in Veneto, si trovano 3 giovani fratelli, Fabio, Alessio e Simone Cecchetto (foto sotto, a destra), alla guida della Cantina Ca’ di Rajo. E a 123 km, a Treppo Grande, in Friuli, la nuova azienda agricola e cantina Aganis, acquisita e reinventata di recente da loro. Un nuovo progetto, per il quale sono stati impiantati nuovi vigneti, preservando “un ecosistema già perfetto, dove la viticoltura si integra nell’habitat naturale, costituito anche da boschi e incorniciato da vette”, come spiega Simone Cecchetto.

Aganis è il nuovo nome dell’azienda agricola, sulle orme di una precedente da tempo dismessa: le agane sono figure della mitologia alpina, che abiterebbero intorno ai corsi d’acqua e in effetti accanto ai vigneti scorre il fiume Cormòr. Siamo ai piedi delle Alpi Giulie, a ridosso della zona vinicola dei Colli Orientali, tra i 200 e i 250 m. slm., in una natura percorsa da caprioli e altri animaletti selvatici, che qualche volta

scorrazzano tra filari e fiori d’ogni tipo. I fratelli hanno puntato sulle varietà autoctone, attualmente coltivate su 22 ettari di terreni caratterizzati da arenaria e marna (altri 15 sono a bosco). Dunque, viti di Friulano, Malvasia e Ribolla gialla fra i bianchi, Refosco, fra i rossi, ma il progetto prevede anche Pinot nero (per un rosé), Merlot, Cabernet Sauvignon e ancora due bianchi, Chardonnay e Sauvignon.
Tra i vari obiettivi, non del tutto svelati, uno strizza l’occhio al cicloturismo: “Vogliamo creare un luogo che rappresenti una sosta piacevole per i ciclisti che percorrono la vicina Ciclovia Alpe Adria (collega Salisburgo a Grado) e che offra un’evasione sensoriale a chi visita l’Ippovia e il parco botanico del Cormòr”, proclamano i tre Cecchetto. E quindi, si costruiranno camere e spazi per un’ospitalità les pieds dans les vignes.

Ma ecco alcuni dei loro vini più convincenti.

 

Peteç, Ribolla gialla spumante brut Friuli Doc 2021 (6.000 bottiglie, circa 14 € la bottiglia).

Significa “chiacchiera” in friulano Peteç, bollicine fatte apposta per conversare amabilmente, magari con cicchetti e fette di prosciutto San Daniele come aperitivo. Le uve, vendemmiate a settembre, e pressate sofficemente, una volta vinificate prendono la spuma nelle grandi autoclavi, senza fretta, con metodo Charmat lungo, che ne prevede la sosta in acciaio da 120 a 150 giorni. Poi l’imbottigliamento. La Ribolla gialla si è rivelata negli anni vitigno molto azzeccato per questi tipi di bollicine, fresche e fruttate.
All’occhio, bella fontanella di bollicine continue, abbastanza fini e persistenti. Giusta corrispondenza naso-palato negli aromi, con sentori di macedonia di frutta, evidenza di pesca gialla, susina, mango e scorza di agrumi. Sorso brioso, vivido e stuzzicante.

Abbinamento elettivo: Insalata di baccalà con olive e sedano. 

Altri abbinamenti: Terrina di pesce, Fiori di zucchine fritti, Fagottini di ricotta e scarola.

 







Flôr, Malvasia dei Colli Orientali del Friuli Doc 2021 (6.000 bottiglie, circa 14 € la bottiglia).

Flôr come fiore in friulano, fiori selvatici che si trovano a profusione negli spazi agricoli e forestali della tenuta. Le uve di Malvasia friulana vengono vinificate a settembre, poi con pressatura soffice si ricava il mosto e quindi, grazie a una fermentazione condotta a non più di 17°, il vino. Che per il 20% matura per 4 mesi in barrique (le piccole botti di rovere da 225 litri) e per il resto in acciaio. Il vino viene poi riunito e lasciato affinare ancora parecchie settimane nei tini inox e quindi nel vetro delle bottiglie.
All’occhio risulta di un classico colore giallo paglierino. Al naso sorprendenti profumi di biancospino e tiglio, pesca e ananas, mughetto e bacche della macchia mediterranea. In bocca, secco, fresco, vividamente sapido; finale con ritorni piacevolmente fruttati. 

Abbinamento elettivo: Spaghetti con fasolari e pomodorini.

Altri abbinamenti: Carpaccio di ricciola, Tagliolini con gamberi profumati al timo, Tortino di zucchine e alici, Seppioline ai ferri con passata di ceci.

 

 

Po’ Folc, Refosco dal Peduncolo rosso dei Colli Orientali del Friuli Doc 2020  (3.500 bottiglie, 14-15 € la bottiglia)

Il Refosco è considerato da molti il re degli autoctoni friulani rossi, la strana denominazione deriva 

dal fatto che la colorazione del pedicello (o peduncolo) muta poco prima della data della vendemmia e diviene appunto rossa. Po’ Folc in friulano significa invece Poi il Fulmine,   non si sa se con riferimento ai temporali estivi o alla sorpresa del bevitore novizio al primo assaggio del vino...L’uva viene raccolta a settembre inoltrato, pressata sofficemente e viene poi lasciata in macerazione con le bucce per 2-3 settimane; quindi si avvia la fermentazione, compiuta grazie a lieviti selezionati, alla temperature di 20-24°. La maturazione del vino ha luogo in acciaio, tranne che per un 20% che si affina in barrique per 4 mesi, e ulteriormente nel vetro delle bottiglie per settimane o mesi. 
Colore rosso rubino intenso. Al naso, tipico sentore di violetta, poi di marasca e ancora more e ribes nero; ricordi di spezie dolci e pepate. In bocca, secco e morbido, con cenni sapidi, tannini levigati e finale lievemente ammandorlato.

Abbinamento elettivo: Muset e brovada.

Altri abbinamenti: Tagliatelle al ragù di cinghiale, Polenta con salsiccia, Capriolo in salsa di mirtilli, Stinco di maiale alle prugne, Pizza con mozzarella, salsiccia e peperoni.

INFO. Società agricola Aganis, via Cocul 2, Treppo Grande (Udine), tel. 0422.855885, https://aganis.wine

domenica 2 ottobre 2022

Libri di carta / La cucina gastrofluviale di Massimo Spigaroli e la pizza modernista di Nathan Myhrvold. Dalla Bassa Parmense al...mondo

 


Due libri. In apparenza diversissimi. Come temi, come personaggi di riferimento. Come concezione. Però, però. Ambedue nascono in cucina, sia pure in cucine circondate da mille contesti diversi. E ambedue  riportano ricette studiatissime, molte semplici e calate nella tradizione alcune, più complesse e con uno o più tocchi di personale creatività, altre.

 

Lo chef, allevatore norcino gastronomo oste albergatore e scrittore dell’Antica Corte Pallavicina di Polesine Parmense, sfodera finalmente il libro che da anni meditava, sul suo mondo, la sua vita, il suo territorio, i piatti, ancestrali e creativi. Ma rinuncia a scrivere in prima persona – e così il volume s’intitola Massimo

Massimo Spigaroli (ph Paolo Gepri)
Spigaroli, una mia idea di cucina gastrofluviale ed è firmato dall’amico Luigi Franchi (direttore della rivista sala&cucina). 

L’altro libro è...una traduzione dall’americano. In tre volumi, tutti incentrati sul cibo italiano più famoso nel mondo: la pizza. Modernist Pizza l’ha intitolato Nathan Myhrvold, fondatore di Modernist Cuisine a Bellevue (presso Seattle, nello stato di Washington, Usa), grande laboratorio di sperimentazione, nonché sede di studi fotografici e casa editrice; l’ha scritto, dopo oltre quattro anni di ricerche sul campo, in gran parte del mondo, assieme all’head chef Francisco Migoya

Un’americanata sulla pizza? Nient’affatto, al contrario è probabilmete il libro definitivo sull’argomento, che spazia dalla tradizione napoletana a quelle...mondiali, dalle innovazioni più azzeccate o (apparentemente) strampalate, all’utilizzo di nuovi ingredienti, ma pur sempre di qualità.

Nathan Myhrvold

Il libro di Spigaroli, presentato significativamente qualche giorno fa nei locali dell’Accademia Gualtiero Marchesi di Milano (www.accademiamarchesi.it)  – lui e il Divin Maestro erano diventati reciprocamente estimatori e amici negli anni – è, almeno in parte, un classico volume di ricette (con belle foto di Paolo Gepri e Paolo Picciotto), chiare, precise e non arzigogolate, che occupano la seconda parte del volume. Ricette della tradizione, di quando Massimo, ragazzo, tornato a casa da scuola si metteva in cucina ad aiutare la zia Emilia, fino ad arrivare a quelle ispirate agli stage in grandi cucine europee, da lui poi rilette con creatività e soprattutto valorizzando gli ingredienti del suo territorio: la Bassa Parmense, terra del Culatello ma anche di pesce di fiume, verdure, carni (maiale e animali da cortile, soprattutto). “La materia prima che uso è per l’80% del territorio, ma per il 20% del resto del mondo, perché è importante valorizzare le tradizioni ma poi bisogna sapersi confrontare con tutti”, spiega Spigaroli.

Alain Ducasse, nella significativa prefazione che ha concesso all’amico Massimo, ragionando sul mestiere del cuoco (“non lo si nasce, si diventa”), dà testimonianza  della storia familiare, dei segreti della Bassa riportati alla luce dal protagonista, degli sforzi per rilevare, con il fratello Luciano, il trecentesco castello abbandonato dell’Antica Corte Pallavicina  (l’unico lungo il corso del Po), oggi Relais con cantina di maturazione dei salumi, ristorante stellato, osteria del maiale e camere fascinose. E, ancora, della valorizzazione del Culatello e della reintroduzione del quasi estinto Suino nero di Parma. 

Dei 60 piatti raccontati minuziosamente (magnificamente fotografati da Picciotto), Ducasse cita alcuni come esempio di quella cucina gastrofluviale così cara a Spigaroli: Le Coscette di rana leggermente dorate all’aglio e prezzemolo su crema di patate novelle; Il Maialino con la cotenna croccante. E, omaggio ai suoi avi: La Faraona ricoperta di Culatello, cotta nell’argilla del Po con verdure glassate (ricetta di famiglia del 1842!); nonché la Pera ripiena con zabaione (ricetta della madre). 

Ravioli di cappone con anguilla e
gambero di fiume (ph. Paolo Picciotto)
Il resto del libro (ossia la prima parte) è il racconto di Luigi Franchi sul Cuoco Paisan, con le testimonianze di alcuni “uomini (e donne) illustri”, da Franco Maria Ricci all’allora principe Carlo, da Luigi Veronelli a Massimo Alberini, da Carlo Petrini a Gualtiero Marchesi, da Anthony Bourdain a Licia Granello, da Depardieu a Robert De Niro...

Ma c’è nel volume un Massimo Spigaroli in prima persona? Sì, in una breve prefazione, scritta di getto nella cucina della Corte la sera del 27 marzo 2022 e dedicata ai genitori ormai scomparsi, mamma Enrica e papà Piren: rievocativa e commovente il giusto, ma senza particolari compiacimenti, solo velata  da una vena di tristezza incantata, che prende un po’ tutti coloro che si recano fra le golene del Po alla vista della nebbia che si espande lentamente ancor’oggi sulle campagne della Bassa Parmense.       

 

Modernist Pizza.  Tre volumi più un manuale di ricette. Oltre 3700 foto e un migliaio di ricette giustificano il prezzo di 375 € del cofanetto? Vediamo. Il team guidato da Nathan Myhrvold e Francisco Migaya ha assaggiato circa 800 pizze in giro per il mondo, a cominciare dall’Italia (e da Napoli), visitando in quattro anni 250 pizzerie negli Stati Uniti, Argentina, Brasile, Europa, Giappone. Poi ne hanno cucinate 12mila, per prova, in laboratorio a Bellevue, eseguendo circa 500 esperimenti con farine, altri ingredienti  e tecniche diverse, anche adatte al forno casalingo. Infine ne hanno scritto 1700 pagine.

Qualche altra curiosità. 

Le pizze più costose ($$$) e le più economiche ($). Prezzi equiparati al dollaro (o in euro).

In Brasile. $$$Camarão com catupiry (Gamberetti con formaggio cremoso-quasi maionese, 28,13 USD) della Pizzaria Bruno Largo Da Matriz di San Paolo;  

$: Ed. Martinelli (3,45 USD) della Forneria Urbana di San Paolo.

In Italia$$$60 Grammi (90 €), di Sirani di Bagnolo Mella (BS);

$Margherita (4 €), Pizzeria Gino Sorbillo di Napoli.

In Giappone$$$Meatzza (36,20 USD)  di DevilCraft di Tokyo;

$Margherita e Marinara (13,63 USD) del Savoy di Tokyo.

Negli Stati Uniti$$$Tartufo nero (55 USD) di Marta di New York;

$Margherita [6-in/15 cm] (6 USD) di Aurelio’s Pizza di Chicago.

 

Lo stile più diffuso nel mondo è quello della pizza napoletana. Fra le non poche eccezioni, spicca lo stile Detroit, collegato immaginariamente alla tradizione dell’industria automobilistica: l’impasto viene steso su una teglia rettangolare di acciaio al carbonio blu, in origine progettata per contenere i pezzi della catena di montaggio! La salsa di pomodoro viene messa sopra il formaggio (Brick del Wisconsin, che a contatto coi bordi della teglia forma un anello croccante), prima o dopo la cottura. Gli autori consigliano “vivamente” di usare la loro salsa olandese al posto di quella di pomodoro, “una combinazione rivoluzionaria che potrebbe farvi riconsiderare le vostre certezze su quale sia la salsa migliore per questo tipo di pizza”. 

Pizza funghi, formaggio Comté,
Parmigiano e tartufo nero

E la, per noi almeno, famigerata pizza all’ananas? Myhrvold racconta che a Buenos Aires, in Argentina, nonostante le origini italiane (e spesso campane) di una parte della popolazione, la pizza Margherita è quasi introvabile, mentre trionfa quella all’ananas, con un anello del frutto posato sulla superficie e una grossa oliva nel centro. Gusto agrodolce, salato-dolce quindi, diffuso in Asia e in fondo anche in Italia in piatti come il lesso o i formaggi con la mostarda...Ne fa una versione personalissima anche il famoso pizzaiolo casertano Franco Pepe nel suo locale Pepe in grani di Caiazzo: si chiama AnaNascosta ed è un cono di pasta fritta con dentro una fetta di ananas ghiacciato, chiusa in una fetta di prosciutto crudo, il tutto ricoperto con fonduta di Parmigiano e polvere di liquirizia.

E così via enumerando scoperte e insegnamenti, esempi di ricette rivisitate, aneddotica sui vari stili  e preferenze in molte città del mondo E, ancora, storia della pizza dagli Usa (prima ricetta nel 1927) all’Italia, al resto del mondo. Curiosa apprendere che la prima ricetta scritta in francese (per altro di una pizza napoletana) risale al 1875, la prima in inglese al 1898, mentre la prima in italiano risalirebbe solo al 1904 (ma in realtà sembra che una ricetta della “vera pizza napoletana” sia comparsa in un trattato del 1858 edito a Napoli). La pizza partenopea ha un suo posto di grande rilievo, con dettagli, dritte, regole e caratteristiche che in molti non conoscono neanche nella stessa città di Eduardo, e con una guida alle pizzerie che in città sono più di 800.

Insomma tra volumi, anzi quattro con le ricette riordinate nel manuale, dettagliati, minuziosi, in cui viene sviscerata tutta l’arte - con i suoi segreti e trucchi (svelati o scoperti grazie ai molteplici esperimenti di cucina) - di fare la pizza, scegliendo i migliori ingredienti per qualità e le cotture più azzeccate. 

Una vera e propria bibbia della pizza, che non dovrebbe mancare sul capezzale (ampio) di ogni buongustaio e pizzaiolo.

 

Info. Luigi Franchi, Massimo Spigaroli, una mia idea di cucina gastrofluviale, prefazione di Alain Ducasse, 224 pagine (formato 23x34 cm, copertina cartonata con custodia), Multiverso Edizioni, (www.multi-verso.it ), 52 €.

Nathan Myhrvold e Francisco Migoya, Modernist Pizza, prefazioni di Enzo Coccia e Tony Gemignani, 1708 pagine, 3700 foto in 3 volumi e un manuale, 1016 ricette (formato 34x28x16 cm, in cofanetto in acciaio), The Cooking Lab (modernistcuisine.com), 375 €.